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Il Pd alla prova del nove (con l’agenda riformista). I consigli di Nicodemo

Le elezioni regionali e il referendum hanno avuto come primo effetto un’auspicata stabilità politica. L’incubo della caduta del governo e di elezioni anticipate, che avrebbero esposto il Paese da molti punti di vista, è un’ipotesi – per fortuna – definitivamente archiviata. Ora questo governo e questa maggioranza hanno almeno due anni di lavoro per risollevare il Paese dalla crisi post-pandemia e superare i ritardi storici e le strozzature strutturali che hanno impedito in questi anni la modernizzazione dell’Italia.

Un vasto programma, avrebbe detto De Gaulle. E anche molto simile a quello che avrebbero dovuto fare tutti i governi dal 1994, con la non banale differenza che questa volta ci sono le enormi risorse del Next Generation EU. Resta il tema di spendere bene e spendere in fretta, in progetti in grado di creare valore, crescita, inclusione sociale. “Sfida storica, se il governo fallisce vada a casa con ignominia”, così ha detto il premier Conte qualche giorno fa, manifestando allo stesso tempo la straordinaria occasione e anche tutti i rischi.

Anche Zingaretti nelle ore successive ai risultati elettorali ha messo l’accento sul tema Recovery Fund. Il Pd, per l’ennesima volta dato per spacciato dalla maggior parte dei commentatori politici, ha dimostrato invece di essere ancora il perno del sistema istituzionale italiano, capace di vincere le elezioni locali ed esprimere classe dirigente. Proprio per questo il tema non è tanto se sia necessario il rimpasto di governo, piuttosto come far diventare egemone una chiara linea riformista e progressista nell’agenda del governo e nella definizione dei piani del Recovery Fund.

Ora non so se questo debba passare per un rimpasto, per un rafforzamento della delegazione del Pd o addirittura nella vicepresidenza del Consiglio dei ministri a Zingaretti, ma in ogni caso è una partita che il Pd non può non giocare fino in fondo. Con tutte le enormi conseguenze.

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