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Politica Insieme, il dialogo (con tutti) ha bisogno di un’identità. Parla Zamagni

Da un po’ di tempo ormai si discute del nuovo soggetto politico centrista e di ispirazione cattolica, “Politica Insieme”. Allo scorso Meeting di Rimini, a metà strada tra dichiarazioni strappate e retroscena giornalistici, è arrivato l’annuncio: presto verrà lanciata la nuova creatura. Le aspettative ci sono, però ci si chiede anche: sarà davvero così? E di fronte a cosa ci troveremo? Formiche.net ne ha parlato con uno dei principali padri fondatori, l’economista riminese Stefano Zamagni, docente di Economia politica presso l’Università di Bologna, fautore dell’economia civile e da marzo 2019 nominato da papa Francesco presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali.

Professore, partiamo subito dal sodo. Si è parlato del 3 ottobre, il giorno prima della ricorrenza di San Francesco. Ormai però vi ha rubato la data il Pontefice, che lo stesso giorno firmerà ad Assisi la nuova enciclica sociale sulla fraternità.

Chiarisco subito: sui giornali è stato scritto il 4 ottobre, ma l’indicazione della data non è venuta da me, che ho parlato di inizio ottobre. I giornalisti sono degli animali strani, costruiscono le risposte a seconda delle convenienze. Io ho detto che si sarebbe andati a un’assemblea costituente, nel corso della quale decidere democraticamente se dare o meno vita a un nuovo soggetto partitico i primi di ottobre. Non ho mai parlato di una data precisa.

Mi chiedevo se la sovrapposizione delle date fosse più una coincidenza o una convergenza…

La decisione l’ha presa il direttivo di Politica Insieme, anche se si sa già da tempo. Se ne parlò nella riunione del 15 luglio scorso, non è una cosa dell’ultimo minuto. La fissazione del giorno avverrà dopo l’assemblea, di cui però nessuno può sapere quale sarà l’esito, anche se io penso che sarà positivo. I partecipanti saranno quelli che hanno sottoscritto il manifesto del novembre scorso.

Entriamo nel merito delle questioni più di sostanza.

La questione più di sostanza riguarda la necessità di dare vita, in questo Paese, a una forza politica di centro, che negli ultimi venticinque anni è stata fatta scomparire. Chi si definisce di centro ha dovuto accoppiarsi o con la destra o con la sinistra. Così sono arrivate le sigle di centro-destra e centro-sinistra. Ma questa è una stortura nei confronti di chi ha a cuore il principio democratico. Democrazia vuol dire dare la possibilità di concreta di scelta. La democrazia liberale non può fare a meno della forza politica di centro autonoma, che vuol dire che ha una sua linea che non viene negoziata con altri partiti o di destra o di sinistra, prima delle competizioni elettorali.

Se l’esito però  della competizione elettorale non è tale da consentire la formazione autonoma di governo, si devono fare alleanze.

È ovvio che a quel punto iniziano i negoziati. Ma si fanno dopo, non prima. Altrimenti non sono negoziati ma alleanze. Se si parte dal secondo caso, significa che scompare l’identità.

Alleanze, professore, sia a destra che a sinistra?

Esatto. Noi in Italia ci siamo dimenticati della necessità di un partito di centro autonomo, che in passato si chiamava Dc. Insieme alla Dc c’erano i partiti di sinistra e di destra. Ed è evidente che nelle fasi post-elettorali i partiti con maggioranza relativa dovevano negoziare per trovare un accordo. Fa parte della democrazia. L’accordo però non si fa prima delle elezioni, ma dopo. Si prenda il centro-sinistra e il centro-destra di oggi, come si fa ad esempio a sapere dov’è la linea che contraddistingue le posizioni di centro da quelle di sinistra? È impossibile. Perché è tutto mischiato. E questo non contribuisce all’affermazione del principio democratico.

Alcuni osservatori vi hanno accusato di essere sbilanciati a sinistra. Tanto che alle scorse regionali in Emilia-Romagna si è parlato di un tentativo di correre insieme alla lista di Bonaccini.

Questa è stata un’altra disinformazione. Alle elezioni in Emilia-Romagna Politica Insieme non si è presentata. Non ha avanzato alcuna proposta né alcun candidato. In un’intervista io facevo riferimento a quei gruppi di natura cattolica che avevano fatto una sorta di alleanza pre-elettorale con il Partito democratico. Politica Insieme con questo non c’entra assolutamente niente. Parlavo di gruppi legati ad esempio alle Acli, o come Demos in altre regioni. Io ho solo messo in evidenza che quell’alleanza ex ante è stata tradita ex post. Dopo l’esito elettorale Bonaccini ha infatti ritenuto di spostare l’equilibrio politico sulla sinistra anziché verso il centro. Questo è il motivo per cui quei raggruppamenti si sono lamentati. Io ho solo detto: avete visto cosa vuol dire non seguire la linea maestra? Presentandosi con una lista autonoma, quei gruppi avrebbero potuto negoziare con i vincitori.

Sareste aperti anche a un dialogo con il centro-destra? Osservatori di destra vi imputano di avere come principale obiettivo il contrasto a Salvini.

La parola dialogo viene dal greco, e bisogna conoscerne l’etimologia, altrimenti si confonde con conversazione. Due cose completamente diverse. È ovvio che il dialogo si deve avere con tutti. Una volta si parlava dei partiti di arco costituzionale, quelli rappresentati in Parlamento. Ma per dialogare bisogna avere una linea propria, un’identità. La propria piattaforma politica si porta al tavolo del dialogo. Senza queste caratteristiche, il dialogo è impossibile. Mentre abbiamo bisogno di dialogo, partendo però dall’oggetto. Parliamo di politica estera, fiscale, della scuola? Su quei temi si apre il confronto, e lì si vede se ci sono spazi per un lavoro comune o solo un preludio per compromessi. In Italia stiamo andando avanti con i compromessi.

In molti provano o hanno provato a ricoprire l’area politica del centro. In pochi però riescono a sfondare, nonostante il desiderio di cambiamento e la mancanza di punti di riferimento che in Italia c’è ed è notevole. Come rispondere a questo desiderio, quali sono i temi forti di un partito di ispirazione cristiana?

Questo partito, se nascerà, avrà un’ispirazione cristiana ma sarà aperto a tutti, credenti e non. Io puntualmente raccomando ai giornalisti di scriverlo. Non saremo una replica della Democrazia cristiana. Ma sarà un soggetto che si ispira ai principi della civiltà cristiana. Così come altri si ispirano ai principi del socialismo o del liberalismo. Perché non deve esserci spazio per una formazione politica che si ispira ai principi del cristianesimo?

Ci faccia qualche esempio. 

Questi principi sono gli stessi da duemila anni. La centralità della persona umana, con la sua inalienabile dignità. Il principio di libertà e di giustizia distributiva, in quanto non si può tollerare un modello di sviluppo che vede aumentare la ricchezza globale ma al tempo stesso le disuguaglianze. L’orientamento al bene comune. La loro declinazione pratica, poi, dipende dalle circostanze storiche.

Ci sono argomenti ben precisi su cui vi siete già espressi?

Se si parla di bene comune, la sinistra lo confonde con il bene collettivo, la destra con il bene totale. Quando si entra nel merito dei temi, lì si capisce chi ha maggiore probabilità di vittoria. Altrimenti parliamo di sciocchezze. I temi che portiamo avanti sono scritti nel manifesto, lungo quattro pagine, con sette punti principali e che si può liberamente scaricare.

Mi faccia qualche altro esempio: siete per più o meno intervento dello Stato nell’economia? 

Lo Stato non deve intervenire nell’economia, lo Stato imprenditore non esiste. Lo Stato deve essere un facilitatore, creare le condizioni perché altri possano produrre e generare valore. Il problema è nel modello di welfare, che noi vogliamo sia delle “capacitazioni”, definizione di Amartya Sen, e non assistenzialistico o paternalistico. Il sistema fiscale va completamente cambiato: in Italia si continua a tassare di più il lavoro d’impresa e troppo poco la rendita. I grossi percettori di rendita pagano molto meno dei lavoratori, mentre l’oppressione fiscale sul lavoro ha raggiunto livelli incredibili. Va cambiata la filosofia: chi campa di rendita non ha diritto a tenere tutto. Poi c’è il tema del sistema scolastico e universitario: non tolleriamo che la scuola e l’università siano considerate istituzioni di istruzione. Devono tornare a essere luoghi di educazione. Mentre in Italia è vietato educare. Pensiamo poi al tema della sburocratizzazione, per la quale noi proponiamo un progetto vero e non fatto a parole. Poi c’è la questione del mezzogiorno, dove non si possono ripetere gli errori del passato. Il mezzogiorno è stato aiutato ma in forma paternalistica, mentre serve una politica che faccia nascere localmente una imprenditorialità. Infine c’è il tema della natalità, che ha a che vedere con le politiche di welfare generativo.

Come giudica l’operato del governo sulla pandemia? Da questa crisi ne potremo poi uscire traendo qualcosa di buono?

Bisogna distinguere i piani. L’azione di governo nei confronti della crisi, vista con l’ottica dell’emergenza, è stata buona. Ma ora non si sta facendo abbastanza per aumentare la resilienza del sistema, la capacità cioè di recuperare e di fare fronte alle difficoltà future. Questa pandemia non è l’ultima, gli studiosi ci dicono che tra qualche anno ce ne saranno altre. Quindi bisogna allungare l’orizzonte e fare interventi trasformazionali, non riforme. Servono trasformazioni. Il giudizio su ciò che è stato fatto, quindi, è positivo, ma non è sufficiente. Si è data la priorità all’emergenza, ma durante l’estate bisognava provvedere a un piano di uscita, come stanno facendo gli altri Paesi europei. Il problema non è quindi in ciò che è stato fatto ma in ciò che non è stato fatto.

Lei ora ha però anche un ruolo di primo piano in Vaticano.

Io in questo partito ho detto subito che non avrò alcun incarico, né di partito, né parlamentare o altro. Mentre c’è chi si adopera per avere la possibilità di accedere a certe poltrone, io ho dichiarato che non avrei mai occupato poltrone di alcun tipo: quello che faccio è a titolo assolutamente gratuito. Chi mi conosce sa che ho sempre praticato il principio di gratuità.

Più volte le è stato chiesto come la Chiesa vede questo partito.

La Chiesa non c’entra niente, intesa come la gerarchia. Questo partito rispetta il principio di laicità. Guai a partiti confessionali. Singoli prelati poi, come tutti i cittadini, si comporteranno come vogliono. La Cei in questi due anni non è mai intervenuta né noi abbiamo mai chiesto niente o coinvolto nessuno. Questo soggetto è al cento per cento laico, che però non significa laicista.

La diaspora cattolica in politica, finita la stagione di Ruini, non ha funzionato?

La diaspora è nata in una situazione molto particolare che ha dato risultato che non si auspicavano. Predicando la diaspora i cattolici sono diventati totalmente irrilevanti.

È quindi d’accordo con le affermazioni recenti del cardinale Ruini.

Certo. Se io vado in un altro partito e rappresento una piccola parte di quel partito non potrò mai contare niente. Non bisogna essere esperti per capirlo.

Secondo lei questo aspetto tocca anche il tema della frammentazione all’interno della Chiesa? C’è poca unità di veduta, ad esempio tra i vari movimenti?

Sono cose diverse, la Chiesa è sempre stata pluralista. Non bisogna fare confusione. Quando Gesù muore, subito gli apostoli si dividono. Il pluralismo interno è la grande forza della Chiesa. I carismi sono molti, non ce n’è uno. Le religioni con un unico carisma finiscono nelle dittature o nella disintegrazione. La Chiesa Cattolica ha la grande forza di alimentare al proprio interno la diversità delle espressioni. Per questa ragione, questo nuovo soggetto politico non chiede ai cattolici di farne parte in nome della cattolicità. Ma in nome del programma, del progetto che si vuole portare avanti. Invece ci sono i cosiddetti cattolici integralisti che vorrebbero che l’unità politica dei cattolici si realizzi intorno a principi che sono universali. È un errore gravissimo. Si chiama l’altro a fare un tratto di strada comune perché si condividono i progetti della piattaforma.

Cosa ne pensa del prossimo referendum costituzionale?

Servirebbe una lunga premessa. Posso dire che la dialettica in atto non riguarda l’oggetto del referendum ma il significato politico che si dà all’esito del voto. Che è un modo di stravolgere il quesito referendario.

Un vizio, anche questo, italiano.

Esatto, molti votano non perché sono convinti della propria posizione ma perché hanno un secondo fine. Si tratta di bassa cucina politica.



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