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Phisikk du role – Vince Di Maio (e gli altri non lo sanno)

Abbiamo raccontato da queste colonne che l’election day settembrina e condita dal covid, avrebbe avuto un significato “politico”, per gli effetti sul governo e sulla legislatura, essenzialmente per il voto referendario e assai meno per il turno delle regionali. E questo ben oltre la carica di enfasi che si andava depositando sul voto territoriale che avrebbe comunque trovato un suo equilibrio tra destra e sinistra o tutt’al più regolato i suoi conti all’interno dei partiti, senza mettere in causa il governo.

Per il semplice fatto che il governo ha la sua maggioranza in Parlamento che non contempla alternative. Nel senso che non è data la possibilità delle elezioni anticipate. Il risultato del voto sembra confermare in pieno questa tesi. Intanto registriamo il dato della partecipazione che sopravanza di qualche punto le regionali del 2015: è chiaro che è stato il referendum a trascinare le regionali e non viceversa come molti si aspettavano. Cosa ha mosso la gente al voto nonostante il coronavirus?

Nella semplificazione tipica del quesito referendario, il sì ha accondisceso l’istinto antiparlamentare che nel fondo del suo dna alberga in ogni italiano, dall’Unità d’Italia ai giorni nostri, ben condito con una “narrazione” secondo cui l’Italia ha il maggior numero di parlamentari al mondo, che si tratta di “poltrone” indebitamente occupate, superpagate, non affatto sudate: insomma: tagliamo i fannulloni. Se i primi a votarsi contro sono i parlamentari vorrà dire che sarà proprio così: forse quel poco di autentico e di sincero che alberga nei cuori dei politicanti alla fine avrà suggerito loro, con una vocina piena di pudore, che si, diciamola tutta, siamo degli abusivi magnapane a tradimento, è giusto che ci tagliamo.

Un rito espiatorio. Insomma di fronte allo schieramento di tutti, proprio di tutti, in favore del sì, che legittimava, dunque, il sentiment popolare già di suo negativo rispetto alla politica, la meraviglia è che ci sia stata gente che abbia votato no. Solo che a riscuotere passa solo Di Maio, non tutti gli altri leader del si: è questo era chiaro fin dall’inizio. Gli altri dovranno risolvere i loro problemi all’interno delle direzioni e dei comitati, qualcuno, forse, del congresso. Comunque Conte può dormire tranquillo, per il momento. Sì, forse un rimpastino tonificante, ma con calma, senza clima da ultima spiaggia.

Dopo l’ordalia, però , occorrerà rincollare i cocci. Riforma dei regolamenti parlamentari, riassestamento delle sconnessioni costituzionali ( che non sono poche), riforma elettorale, tanto per citare qualche problemuccio. La riforma elettorale stavolta non potrà eludere il problema della scelta dal basso: occorre che la gente possa eleggersi il suo candidato col voto di preferenza. Occorre dire basta alle liste bloccate che da decenni hanno confiscato il voto del cittadino per metterlo in mano al capo bastone. Si ascoltano aperture in questo senso: bene.

Un era glaciale fa si fece un referendum ( abrogativo) per cancellare il voto di preferenza dall’ordinamento elettorale italiano. La voce dei media e della politica ( tranne rare eccezioni) fu unanime: se cancelliamo le preferenze l’Italia sarà più onesta e più democratica. Al referendum fummo solo un italiano e mezzo su dieci a votare contro questa impostazione “salvifica”. Che poi non ha salvificato un bel niente, anzi. Oggi i pentiti di quelle scelte crescono di ora in ora e il voto di preferenza diventa un’opzione possibile. Curioso.


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