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Votare Sì al referendum non è la fine della democrazia. Sabella spiega perché

Di Giuseppe Sabella

Diciamolo subito: il taglio dei parlamentari è una riformicchia. Non cambia di molto la situazione vigente ma nemmeno è la fine della democrazia. E allora perché votare Sì?

Intanto: più o meno un anno fa, l’8 ottobre 2019, la modifica degli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari veniva approvata in modo praticamente unanime. Si vota ora con il referendum costituzionale semplicemente perché non vi erano i 2/3 dei presenti al Senato. Questo è già un elemento che dovremmo considerare: ciò che i partiti votano in modo unanime non è buono per definizione, è tuttavia indicatore di qualcosa di condiviso. Il grande problema di fondo che abbiamo oggi è la frammentazione politica che ha raggiunto livelli molto elevati. Va pertanto osservata con attenzione un’ipotesi di riforma istituzionale che possa generare una convergenza di ampia maggioranza e, magari, dar vita a una nuova stagione.

Al di là del fatto che nelle altre democrazie avanzate il numero dei parlamentari è già più contenuto del nostro, vi sono attualmente progetti di legge che vanno in questa stessa direzione, in particolare in Gran Bretagna, in Germania e Francia. Vi è quindi un intento comune, nei Paesi avanzati, di riformare il potere legislativo. È, come dice qualcuno, un pericolo per la democrazia?

Da almeno 10 anni a questa parte – dopo la crisi del 2008 – vi è in atto, in tutto il mondo, un processo di ridefinizione degli equilibri tra i poteri. E dopo la pandemia, in particolare l’Unione europea ha dato segni importanti di vitalità politica che hanno portato all’accordo del Recovery Fund. Per la prima volta, l’Europa emetterà titoli comunitari a sostegno del debito comune. Si tratta di una svolta non solo politica nel senso più nobile – oggi l’Europa è più coesa e integrata di ieri – ma anche nei meccanismi che regolano i rapporti fra gli Stati membri.

È evidente che dentro un nuovo riassetto dei poteri – in particolare esecutivo e legislativo – il rafforzamento di un organismo sovranazionale è ulteriore fattore di cambiamento che riguarda gli Stati nazionali. Non a caso il 19 maggio scorso, in occasione della presentazione del Recovery Fund al Consiglio Europeo, Angela Merkel diceva: “È la fine dello Stato nazione, la Germania starà bene solo se l’Europa starà bene”.

Cosa vuol dire che è la fine dello Stato nazione e cosa c’entra col nostro referendum?

Il rafforzamento del potere politico sovranazionale, la Ue, proprio in ragione della maggior coesione e degli ingenti investimenti che l’Unione sta promuovendo, sta generando nuovi equilibri ma non è un fatto inedito. I Parlamenti nazionali hanno già perso la loro centralità da parecchio tempo: in Italia, ad esempio, sono almeno 20 anni che si governa con lo strumento del decreto-legge che chiede poi, entro 60 giorni, di essere convertito in legge dal Parlamento, con i “nominati” – ovvero gli eletti in virtù di liste bloccate e non perché scelti dagli elettori – che votano secondo le indicazioni che hanno dalle direzioni di partito. Questo è ciò che avviene regolarmente ormai da quasi due decenni in cui non si ricorda una legge importante di iniziativa parlamentare e, soprattutto, non si ricorda nessuno che abbia gridato alla fine della democrazia.

La verità è che da tempo le funzioni del governo e persino del Capo dello Stato sono cresciute. Il Presidente della Repubblica, infatti, oggi non è più soltanto il garante della Costituzione, è il principale interlocutore delle cancellerie degli altri Paesi, funzione che in questi termini non ha dalla Carta costituzionale e che si riverbera necessariamente sull’esecutivo. Con conseguente rafforzamento delle sue prerogative e di quelle del governo, tutto a danno – naturalmente – della centralità del Parlamento.

Senza considerare, inoltre, che il Parlamento si è ormai ridotto non solo ai “nominati” che votano secondo ordini che ricevono dall’alto ma che nemmeno ci risparmiano le tristi immagini – persino al Senato – delle claque ai capataz durante i loro discorsi, che sono gag neanche divertenti rispetto alle orazioni dei grandi politici che hanno dato sostanza al ruolo centrale della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica. Il Parlamento è da tempo, in sintesi, svuotato del suo ruolo centrale e propulsivo. Questo, anche, in ragione della demagogia dilagante dentro i partiti. Non è quindi la riduzione del numero dei parlamentari a cambiare lo stato delle cose.

Si dice che, con la vittoria del Sì, alcuni territori non avranno più garantita la loro rappresentatività. Una nuova legge elettorale dovrà provvedere a sistemare questo aspetto che è meramente elettorale e non c’entra nulla col numero dei rappresentanti. Altrimenti non si spiegherebbe come in Germania, ove vi sono 20 milioni di abitanti in più che in Italia, vi sia un numero inferiore di parlamentari.

Nell’attesa che migliori la selezione di rappresentanti più adeguati e competenti dentro i partiti, dobbiamo prestare attenzione al rafforzamento delle istituzioni europee. Il baricentro della democrazia è oggi l’Unione europea. La garanzia di una continuità democratica risiede nell’Unione e il vero pericolo per la democrazia è l’antieuropeismo. Credo pertanto che valga la pena che il nostro sistema capisca qual è il modo migliore per interloquire con le istituzioni europee e con la loro nuova sovranità. La cessione di competenze implica una rinnovata capacità politica degli Stati membri onde evitare che questa diventi cessione di sovranità. Da questo dipende il nostro futuro e non dal numero di parlamentari. L’auspicio è che questo sia l’inizio di un percorso di modernizzazione del nostro apparato istituzionale. Ma serve il contributo di tutti.

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