Il primo pregio della riforma sottoposta a referendum consiste nel limitarsi ad un solo punto (ridurre il numero degli eletti). Un punto essenziale e chiaro. Che non è un colpo di testa o una forzatura delle regole. In un quarantennio – avendo tenuto conto che nel frattempo erano arrivate le regioni con i loro numerosi consiglieri e i parlamentari europei – le camere hanno votato questo principio 13 volte (dicasi 13) senza riuscire mai a realizzarlo, perché è stato insabbiato nelle paludi senza volto create dai materiali interessi corporativi.
In questi quaranta anni, il funzionamento delle Camere ha dato indubbia prova di ridondanza e di inefficienza crescenti. Anche se al riguardo si dicono cose manipolate, l’indiscutibile realtà è che oggi gli elettori Italiani eleggono più parlamentari di qualsiasi altro Paese salvo la Spagna. Oggi c’è un parlamentare eletto ogni 63.900 abitanti; domani ce ne sarà uno ogni 100.666 (sempre più che in Germania, 1 ogni 116.220; che in pratica è come la Francia; nel Regno Unito 1 ogni 102.769). Va detto che è uno scandalo democratico italiano che gli uffici parlamentari diffondano in proposito dati non corrispondenti al vero. Partono dal presupposto falso che in Italia non vi sia il bicameralismo paritario e di conseguenza comparano i numeri di una camera elettiva in altri paesi (privi di bicameralismo paritario) con quelli di un solo ramo italiano e dimenticandosi degli eletti dell’altro ramo indispensabile in Italia per funzionare.
L’attuale referendum è dunque la volta buona per prendere atto che nessun’altro parlamento è pletorico come quello italiano. E che ridurre il numero degli eletti migliora la funzionalità dei lavori e delle decisioni in Aula, li rende più comprensibili ai cittadini che osservano dall’esterno e infine spinge ad un dibattito elettorale molto più attento alle idee e ai conseguenti progetti rispetto alle usuali diatribe di potere. Del resto, lo aveva già detto Einaudi alla Costituente. Insomma, ridurre il numero degli eletti rafforza non poco la qualità della rappresentanza.
Già questo far decidere agli italiani il numero degli eletti prima di ogni altra cosa, è un simbolo di principio utile per poi aggiungere a tale riforma le altre che si riterranno necessarie (quali la nuova legge elettorale, i regolamenti parlamentari). Ma deve restare chiaro che le riforme successive sono di genere diverso rispetto al taglio del numero degli eletti. E seguiranno altre valutazioni da soppesare con cura. Tre esempi. Precipitarsi ad eliminare le diversità tra Senato e Camera collide con l’obiettivo di sradicare il bicameralismo paritario italiano, fonte di una sequela di disservizi. Oppure ridurre il numero dei delegati delle Regioni per l’elezione del Presidente della Repubblica, contraddice l’esigenza di rafforzare il suo ruolo di rappresentante della “unità nazionale”, che consiglierebbe l’aumento della platea degli elettori . Oppure, mettere insieme un’alta soglia di sbarramento e circoscrizioni elettorali piccolissime, equivale a favorire le liste più robuste (il che è calmierato solo da una preventiva crescita accentuata del confronto dei progetti di fondo).
Questi tre esempi ribadiscono come pretendere in partenza una riforma costituzionale compiuta nei dettagli, avrebbe impedito pure questa volta di arrivare a ridurre il numero degli eletti. Si sarebbe restati nella culla delle illusioni che tutto va bene e che il Parlamento funziona alla grande, mentre in verità le istituzioni sprofondano nella melma e nella nebbia. Lo comprovano i dati statistici prima ancora della percezione civile.
Per di più, ridurre il numero degli eletti comporta ulteriori vantaggi oltre quello del funzionamento Parlamentare e della qualità del confronto politico per eleggerlo. Meno persone sono investite del ruolo rappresentativo, più cresce il peso politico del singolo eletto, il quale conterà davvero perché frutto di una selezione più dura e difficile. Peso che è anche il riequilibrio politico tra il parlamentare in carica e il partito che lo ha candidato disponendo ora di una area ristretta di posti (il che diminuisce i traffici clientelari). Di pari passo con la riduzione – visto che i rappresentanti dei cittadini vanno adeguatamente retribuiti in quanto titolari di un compito di assoluto rilievo nel convivere – si ridurrà il numero delle persone tenute a fare della politica il mestiere a spese del pubblico erario.
Nel complesso una riforma d’impatto modesto che però rassicura i cittadini sulla capacità del Parlamento di aggiustarsi al passar del tempo. Sul punto, anzi, esiste una abissale contraddizione nei sostenitori del no. Si dicono preoccupati per lo sfregio che il sì farebbe al Parlamento, e poi hanno voluto questo referendum – ottenuto con passaggi giuridici costituzionalmente assai audaci – che, qualora vincesse il no, davvero sfregerebbe quanto deciso in Parlamento ad ampia maggioranza (nell’ultima votazione alla Camera, intorno al 90%).
Del resto, la naturale dinamicità civile della visione inclusa nel voto sì, è comprovata dall’inequivoco carattere identitario del nucleo di chi vota no. È costituito da un lato da quasi tutti i vecchi Dc all’anagrafe. Votano no, i massimi dirigenti della Dc di allora, quelli tuttora in vita. Fedeli a sé stessi, si ritrovano nella repulsa per il cambiamento, specie quando a cambiare sono gli altri (orrore). Ripetono la stessa mentalità per cui la Dc è alla fine scomparsa.
Dall’altro lato, c’è una situazione analoga anche in campo marxista. Pure qui, tutti i leader ideologici più noti si sbracciano per il no, reo di non seguire le regole della tradizione, specie quella frutto della convergenza del compromesso storico sull’idea che la Costituzione del ’48 è di fatto intangibile. Il perché della convergenza è perché il consentirla concederebbe un pericolosa autonomia alle forze che fanno scegliere al cittadino, a prescindere dalle indicazioni dei partiti di massa. Questa convergenza dei due nuclei di quello che n volta si chiamava il compromesso storico, ha trovato una cassa di risonanza nella maggior parte della carta stampata, ostile alla diversità e al cambiamento che logorano le sue relazioni privilegiate, già ridotte negli ultimi tenta mesi. È surreale che un grande quotidiano, ribalti del tutto le realtà dei fatti e sostenga che il raggruppamento del no rappresenta un paese che cambia. Nei fatti, dati alla mano, è l’esatto contrario.
Il no non nasconde di considerare le istituzioni un monumento da conservare nelle sue forme statiche e nei tradizionali rapporti di potere. Perché l’immobilismo mantiene la cittadinanza legata alla linea del dover essere prestabilito dal conformismo della tradizione democratica. Il sì, contrariamente alla favola raccontata martedì sul quotidiano, non è la mera coda della stagione populista, appunto perché senza incertezze vuole il miglior funzionamento delle istituzioni. E così tiene a bada il populismo. Le istituzioni non sono un monumento statico. Il loro valore sta nel loro funzionamento. Cioè nell’esser capaci di assicurare ai cittadini i servizi indispensabili per realizzare la civile convivenza quotidiana. Perciò il vero nodo delle istituzioni è la loro effettiva funzionalità. Rendere meno pletorico il Parlamento è essenziale per correggere le disfunzioni oggettive che ci sono state negli ultimi anni, innegabili.
Questo è il nocciolo politico culturale del referendum. Lo statico conservatorismo del no (per cui nulla va cambiato al di là delle chiacchiere, accompagnate dalle visioni utopiche che non hanno mai seguito), contro lo sforzo dinamico del sì di innescare un po’ alla volta mutamenti concreti, con l’obiettivo di far funzionare meglio il meccanismo. Perché il meccanismo rappresentativo solo rinnovandosi periodicamente mantiene la funzione di partecipazione pubblica dei cittadini in cane ed ossa, che è la maggior novità trovata negli ultimi 4 secoli.
Questi sono i fatti quotidianamente verificabili. Purtroppo in Italia la narrazione pubblica è oggi dominata dal dare notizie manipolate che si autoalimentano nei social. Così, ad esempio, la scelta della Direzione del Pd fatta 185 a 13, è stata presentata come un successo dei 13 e non si è parlato quasi per nulla della capacità del Pd di confermare l’indicazione di voto a favore del sì data un anno fa. Conferma che invece è una coerenza da riconoscere in modo oggettivo, perché un simile comportamento è utile al confrontarsi sulle idee, smettendola di usare gli slogan del dibattito di potere, esasperato delle notizie manipolate ed autoalimentate sui social.
Questa volta, votare sì è un passo piccolo ma concreto per dare ai cittadini un correttivo che potenzia lo strumento rappresentativo.