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Migranti, cosa non va nel regolamento di Dublino. Parla il prof. Cherubini (Luiss)

Il tema della migrazione è sul tavolo dell’Europa. Il presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, in seduta plenaria al Parlamento europeo, ha annunciato la morte del regolamento di Dublino, e la sua sostituzione con un nuovo sistema di governance, basato su strutture comuni per l’asilo e per i rimpatri, e soprattutto un forte meccanismo di solidarietà. Il documento con questo nuovo piano sarà presentato il 23 settembre, e aprirà una fase di dibattito non facile.

L’annuncio non sorprende, come ha spiegato in una conversazione con Formiche.net Francesco Cherubini, professore  di Diritto dell’Unione europea alla Luiss. In passato c’erano stati alcuni tentativi, che hanno trovato l’ostacolo dell’accordo tra gli Stati membri.

Le dichiarazioni di von der Leyen sono in linea con quanto aveva auspicato e proposto la commissione precedente Juncker, cioè una riforma di tutto il sistema di asilo dell’Unione, che anche se non radicale, molto significativa. “La stessa commissione Juncker – ricorda Cherubini – è stata protagonista di una serie di iniziative di proposta per rimettere mano a questo sistema. Iniziative non particolarmente audaci, ma non perché non abbia voluto farlo, ma perché la commissione ha come interlocutori gli Stati, deve trovare l’accordo tra gli stati, che non è stato raggiunto”. Non è un caso dunque che nel suo intervento la presidente della Commissione europea abbia esortato gli Stati membri a contribuire nei negoziati.

Condivide questa linea anche il Parlamento europeo, che aveva preso posizione sulla riforma del regolamento di Dublino con una impostazione molto interessante e all’avanguardia, secondo il professore: “Per la prima volta immaginava di eliminare dal regolamento di Dublino il criterio (formalmente residuale, ma di fatto abbastanza importante) del primo ingresso illegale come elemento di identificazione dello stato responsabile per l’esame della domanda di protezione internazionale. Che poi uno dei problemi principali di questo regolamento”.

Ma cosa c’è che non va in questo regolamento? Cherubini sottolinea che si parla di regolamento, perché la convenzione, datata al 1990, è superata: “Il primo ingresso illegale ha determinato una serie di storture dovute al fatto che gli Stati più colpiti da questi flussi hanno violato il regolamento di Dublino, non prendendo le impronte e facendo scivolare questi richiedenti sulla responsabilità di altri Stati”.

Si è creata, dunque, una situazione anomala, fra violazioni (soprattutto da parte dall’Italia e dalla Grecia), e prese in carico da parte di altri, che si è riflessa sulla solidarietà tra gli Stati membri.

“C’è un altro aspetto nel regolamento di Dublino – sostiene Cherubini -: lo Stato responsabile dell’esame della domanda è identificato dal regolamento, sicché il richiedente sostanzialmente non può scegliere dove andare. Questo è un problema, secondo me, molto più importante”.

Questo perché si tratta di diritti fondamentali del migrante, ma crea un problema dal punto di vista pratico: “Che è il motivo per cui è stato adottato il regolamento di Dublino, perché le destinazioni sarebbero sempre quelle dove potrebbe trovare più lavoro, dove sarebbe accolto meglio, con un miglior sistema sanitario e di sicurezza sociale, dove ci sarebbe più spazio per l’integrazione, o banalmente con una comunità più radicata che parla la stessa lingua e ha la stessa cultura.  Con questa regola il flusso si concentrerebbe negli stessi Stati”.

Per Cherubini, riformare il regolamento significa trovare un punto di equilibrio fra i diritti dei richiedenti, le necessità degli Stati e la solidarietà reciproca fra gli Stati: “Ed è quello che credo propone l’attuale commissione, ma non sarà facile, soprattutto perché ci sono Stati membri che non hanno intenzioni di muoversi dalle proprie posizioni”.

In questo quadro l’Italia è in una situazione di difficoltà, ma da pochi anni, perché prima non applicava il regolamento di Dublino integralmente per poter scaricare i richiedenti su altri Paesi. “Il richiedente arrivava e sulla base del diritto europeo avrebbero dovuto prendere le impronte per rendere identificabile il migrante – spiega Cherubini -. Non prendendo le impronte questa identificazione è impossibile, per cui gli altri Paesi se lo dovevano tenere. Questo è avvenuto per anni […] L’Italia scaricava su questi stati la maggior parte dei richiedenti”.

Una statistica, che compara gli ingressi illegali in Italia con le domande di riconoscimenti, illustra molto bene questa situazione: “Gli ingressi illegali nel 99% dei casi si traducono in domande di riconoscimento. Ma su 100 ingressi non c’erano 99 richieste di domanda, ma 20. Gli altri 80 erano finiti in altri Paesi e, grazie a questo stratagemma di non prendere le impronte, non c’era modo, per gli Stati membri di ultima destinazione, come la Germania, ad esempio, di rimandarli indietro. La regola non è giusta ma l’Italia l’ha sistematicamente violata scaricando i richiedenti su altri Paesi”.


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