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Da Renzi a Salvini, perché i leader nazionali non pesano più. L’analisi di Carone (YouTrend)

Di Martina Carone

I risultati delle elezioni regionali e del referendum sul taglio dei parlamentari sono arrivati. I vincitori di questa partita, però, non sono chiari: sicuramente il risultato del referendum blinda il governo Conte e la legislatura: con lo scranno a rischio, i parlamentari tutti saranno infatti disincentivati a chiudere anzitempo.

Con il 3-3 sicuramente può sorridere anche Nicola Zingaretti, che vede le discussioni sulla sua segreteria placarsi per un po’, almeno fino alle prossime elezioni; sicuramente può essere contenta Giorgia Meloni, che vede una regione da sempre amministrata del centrosinistra arrivare nelle mani di un candidato espressione del suo partito. Sicuramente è soddisfatto Luigi Di Maio, vincitore morale di un referendum che ha provato in ogni modo ad intestarsi, riguardando un tema caro all’elettorato del Movimento 5 Stelle. Chi è meno soddisfatto è Matteo Salvini: avendo puntato molto sulla Toscana, il leader leghista viene additato come colpevole di aver alzato enormemente le aspettative parlando di 7-0, e vede la sua leadership leggermente incrinata dalla figura ingombrante di Zaia.

In ogni caso, i leader nazionali hanno ben poco da ridere: il loro tentativo di fungere da ago della bilancia, in questa tornata, non ha pagato. Anzi: in alcuni territori è stato un rischio.

Da una parte, la situazione ha avvantaggiato chi si è tenuto alla larga dalle elezioni: in un “mi si nota di più se…” di morettiana memoria, Nicola Zingaretti e Luigi di Maio, i due leader dei partiti di governo, non hanno partecipato ai tour elettorali ed hanno anzi evitato di posare il cappello sui candidati nelle regioni. Zingaretti non ha presenziato ai principali eventi di campagna, mentre Di Maio si è concentrato sul referendum, usandolo come uno strumento di conferma della propria leadership in una competizione in cui era prevedibile una cattiva performance del Movimento.

Ma chi soffre di più grattacapi sono invece quelle figure nazionali che, battendo il territorio nell’intento di portare valore aggiunto e credibilità ai candidati del territorio, li hanno, a conti fatti, messi in difficoltà: ad esempio Matteo Renzi che nella sua Toscana non riesce nell’intento di aggiudicarsi percentuali soddisfacenti, pur avendo sostenuto ed essendo uno degli ispiratori della candidatura di Giani. La sua Italia Viva si ferma al 4,5%, fallendo l’obiettivo da lui stesso annunciato di superare il Movimento 5 Stelle, che invece conquista il 7% dei voti, e di diventare l’ago della bilancia nella vittoria di Giani: percentuali alla mano, un impatto decisamente poco incisivo su un candidato che supera l’avversaria di oltre 8 punti percentuali.

L’altro leader nazionale ad aver ottenuto l’effetto contrario sul territorio è invece Matteo Salvini, che nella stessa regione si è speso per Susanna Ceccardi: la sua presenza, mediatica e fisica, ha probabilmente avuto l’effetto di mobilitare gli elettori del centrosinistra, spaventati da una candidatura estremista e stimolando la corsa al voto “contro l’avanzata dell destre”: una dinamica con cui Salvini deve ormai fare i conti, perché probabilmente determinante anche nella vittoria di Stefano Bonaccini nelle regionali in Emilia-Romagna.

D’altronde, anche i dati ci confermano che i leader nazionali non vivono un buon momento: secondo l’ultimo Atlante politico di Demos&pi per Repubblica, Luca Zaia è il secondo leader più amato dagli italiani con il 56% dei gradimenti, seguito da Vincenzo De Luca al quinto posto (43%) e Stefano Bonaccini, al decimo posto con il 37%. Quasi tutti dati migliori di quelli di Zingaretti (33%), Di Maio (32%), Salvini (39%) e Berlusconi (33%).

Con questi dati, i leader nazionali dovrebbero rivedere il proprio ruolo nelle campagne elettorali locali; eppure, nelle dichiarazioni post voto, han cercato di assumere una centralità che, evidentemente, non hanno. Le motivazioni di questo scostamento, in fondo, sono tante: da una parte, bisogna dire che le elezioni regionali sono sempre state a metà tra politiche e amministrative: il candidato presidente non ha il traino che hanno i sindaci nelle comunali, e ad essere fondamentale è il peso della coalizione e delle liste. Dall’altra, il ruolo centrale che i governatori hanno assunto nella fase di gestione dell’emergenza coronavirus ne ha modificato la percezione e, quindi, il consenso. In questa tornata, infatti, chi invece ha fatto incetta di voti “personali” (legati cioè alla propria persona più che al simbolo di riferimento) sono i governatori uscenti: le liste dei governatori uscenti sono tra le liste più votate in tutte le regioni nonostante il tentativo, insistente da parte dell’opposizione, di far passare il messaggio di un legame tra affermazione del centrodestra e crisi di Governo.

Il peso dei leader nazionali, ormai è evidente, è stato ridimensionato: nelle competizioni elettorali locali non incidono più, e anzi i leader locali riescono ad avere maggior consenso restando nel territorio e diventando il simbolo di una politica trasversale negli schieramenti politici, capace di amministrare e di mobilitare l’elettorato e di sfondare i confini delle regioni.

Chissà se, ai governatori più ambiziosi, non convenga restare nei ruoli locali per assumere, un domani, maggior peso politico…

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