“Ringrazio l’ambasciatore Terry Branstad per i suoi oltre tre anni di servizio per il popolo americano come ambasciatore statunitense ella Repubblica popolare cinese”. Con questo tweet il segretario di Stato americano Mike Pompeo ha annunciato l’addio di Branstad a Pechino nel bel mezzo delle tensioni commerciali, tecnologiche e geopolitiche tra i due Paesi. Secondo quanto riferito dalla Cnn l’ambasciatore dovrebbe lasciare l’incarico prima delle elezioni presidenziali di inizio novembre.
Ex governatore dell’Iowa, fu scelto nel dicembre del 2016 da Donald Trump come ambasciatore statunitense a Pechino anche grazie al buon rapporto trentennale con il presidente cinese Xi Jinping. Come ricordava l’Economist, il portavoce della diplomazia di Pechino lo definì un “vecchio amico del popolo cinese”.
Viene da chiedersi che cosa sia andato storto. Anche perché la diplomazia statunitense non ha fornito spiegazioni. Tre giorni fa la Cina aveva imposto una serie di misure restrittive reciproche alle attività dell’ambasciata e dei consolati statunitensi nel Paese, compreso il consolato generale degli Stati Uniti a Hong Kong, e al loro personale. “Invitiamo gli Stati Uniti a correggere immediatamente i propri errori e a revocare le irragionevoli restrizioni imposte all’ambasciata e ai consolati cinesi e al loro personale”, aveva dichiarato il portavoce della diplomazia cinese. Aggiungendo: “La Cina risponderà in maniera reciproca alle azioni degli Stati Uniti”.
Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso potrebbe essere stata la decisione del giornale cinese People’s Daily di non pubblicare un editoriale dell’ambasciatore Branstad in cui accusava il governo di Pechino di “sfruttare” l’apertura degli Stati Uniti negli ultimi decenni. “Se desidera pubblicare questo editoriale sul People’s Daily, dovrebbe apportare revisioni sostanziali basate sui fatti nel principio di uguaglianza e rispetto reciproco”, ha comunicato il giornale nella lettera di rifiuto. Una missiva contro la quale aveva tuonato il segretario Pompeo parlando di “ipocrisia” e immaturità da parte del governo cinese.
Il caso dell’editoriale di Branstad ricorda quello di un altro ambasciatore, quello europeo a Pechino, il francese Nicolas Chapuis. A maggio aveva dato il via libera alla pubblicazione di una lettera sui giornali cinesi nonostante la censura del governo di Pechino avesse fatto rimuovere i riferimenti all’origine cinese del virus.