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L’arte dell’incertezza. Martino traccia un bilancio della politica estera di Trump

Di Lucio Martino
impeachment

La politica estera di Donald Trump è un tema difficile da affrontare, perché sembra violare i canoni più basilari delle relazioni internazionali. Trump è spavaldo e scostante, e sembra prono a tradire gli alleati con la stessa facilità con la quale concilia i nemici. In realtà, c’è una sorta di metodo nella follia. Trump sta perseguendo una politica estera non convenzionale, non solo perché i suoi obiettivi sono diversi dagli obiettivi dei presidenti che lo hanno direttamente preceduto, ma anche perché diverso è il suo senso delle priorità e la sua idea di come funzionano le cose. Ne consegue che Trump persegue oltre a una diversa politica estera, un diverso, e quasi inedito, approccio alle relazioni internazionali.

Trump gestisce la sua politica estera nello stesso modo in cui ha gestito la sua attività affaristica, personalizzando le relazioni al punto che il palesare grande rispetto, oppure profondo disprezzo, per un qualsiasi suo interlocutore nazionale e internazionale è elevato a strumento fondamentale della sua azione politica. Non deve quindi sorprendere se, prima da candidato e poi da presidente, Trump non ha mai esitato nell’incolpare personalmente il repubblicano George W. Bush e i democratici Bill Clinton e Barack Obama per delle scelte politiche la necessità di annullare le quali è ben presto diventata il segno distintivo della sua politica estera. La prima serie di politiche da riversare, Trump l’ha identificata in quelle convenzioni, in quei trattati e in quegli accordi sui quali poggia l’intero edificio del commercio internazionale. La seconda serie di politiche da annullare, Trump l’ha individuata in quelle guerre, a suo avviso facoltative, costose e insignificanti, che hanno visto gli Stati Uniti impegnati dall’Afghanistan alla Libia.

A un livello strategico, Trump intravede nella Cina, nell’Iran e nella Russia tre paesi che stanno esplicitamente cercando di ridurre la supremazia globale statunitense. Tra questi, Trump concepisce l’Iran come il paese più debole, e quindi, come il paese da mettere maggiormente sotto pressione, al fine d’invertire quel senso di declino americano che è anche il prodotto delle guerre mediorientali degli ultimi vent’anni. Ed è proprio nei riguardi della questione iraniana, che Trump legge in modo molto negativo la posizione europea, perché la interpreta come un segno d’implicito appoggio a un declino americano al quale non intende lasciare spazio. In politica estera, Trump si è così presentato come un oppositore dello status quo, nel più deciso rifiuto di quella Pax Americana che ha caratterizzato il sistema internazionale almeno dalla fine della Guerra Fredda.

Trump ritiene che gli Stati Uniti hanno bisogno di essere economicamente forti per essere forti a livello internazionale. L’approccio di Trump nei confronti del commercio internazionale è quindi estremamente risoluto, tanto da prospettare vere e proprie guerre commerciali, pur di ottenere concessioni in materia di scambio. Nella sua analisi, Trump non si cura del possibile impatto sui prezzi al consumo delle misure protezionistiche da lui auspicate. Anzi, non solo ha subito minacciato l’imposizione di dazi sulle importazioni dalla Cina, ma non ha risparmiato da tali minacce neppure il Canada, il Messico e i paesi membri dell’Unione Europea, in una strategia che si è dimostrata estenuante tanto per gli alleati quanto per gli avversari.

Inoltre, Trump non ha mai mostrato alcun interesse nei riguardi di quella teoria secondo la quale lo squilibrio commerciale è un piccolo prezzo da pagare per il mantenimento di un ordine mondiale che torna sempre a vantaggio degli Stati Uniti. In questo campo, la sua visione è riassunta nell’idea che se una bilancia dei pagamenti in passivo è una cosa buona come sostenuto dai suoi oppositori, non si capisce perché i principali partner commerciali statunitensi cerchino a ogni costo di evitarla. Per Trump, paesi quali la Cina interpretano il modo con il quale gli Stati Uniti hanno gestito la propria bilancia commerciale, come una debolezza da sfruttare. Secondo Trump, i suoi predecessori democratici e repubblicani sono stati tutti ingannati e umiliati in accordi commerciali che hanno svenduto la classe lavoratrice statunitense per compiacere le élite globaliste e le loro controparti straniere.

Per quanto riguarda la seconda serie di politiche tipiche dei suoi predecessori, Trump non ha mai davvero obiettato che intervenire militarmente sia da evitare in quanto immorale. Dal suo punto di vista, il problema è che gli interventi militari disposti dai suoi predecessori, sono stati intrapresi a vantaggio di altri paesi e a svantaggio del popolo statunitense. Trump ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero impegnarsi militarmente in modo più reattivo che preventivo, ma sempre solo nel caso in cui possano realisticamente, e velocemente, combattere per vincere. Per Trump, l’eventuale posta in gioco geostrategica è quasi irrilevante, perché “vincere non è tutto, è l’unica cosa”, come a suo tempo sostenuto dal leggendario allenatore di football Vince Lombardi. Da notare che Trump non vuole combattere, quello che vuole è vincere. Trump vuole vincere, e vuole essere visto come un vincente, e da questo punto di vista entrare in guerra non va bene perché nessuno è più grande del generale che prevale sui propri nemici senza combattere.

Ma quando ormai si è in guerra, vincere è molto più importante del perché e del come si combatte. Tuttavia, impegnarsi solo in conflitti che si è sicuri di vincere, per obiettivi immediati, è un qualcosa molto più facile a dirsi che a farsi. Da presidente, Trump si è ben presto trovato alle prese con il dilemma di come scoraggiare le ambizioni egemoniche altrui senza per questo ritrovarsi impantanato in un qualche conflitto. La sua soluzione è stata di riportare la deterrenza al centro della visione strategica statunitense, improntando le sue azioni a una così spregiudicata imprevedibilità da rischiare, non solo uno scontro armato che non vuole, ma anche di estraniarsi permanentemente vecchi e nuovi alleati.

A suo avviso, non ci sono buone ragioni per far si che il tuo nemico, così come il tuo alleato, sappia in ogni dato momento cosa stai pensando e cosa stai per fare. Molto meglio lasciare tutti in un’incertezza che, tra l’altro, potrebbe portare gli uni e gli altri a tradire le proprie reali intenzioni. Un approccio, questo palesato da Trump, congruo con una vita trascorsa in un mondo estremamente competitivo, come quello degli affari newyorkese, nel quale non ci sono veri amici e non ci sono veri nemici, ma solo interessi, tanto per parafrasare Lord Palmerston.

Non a caso, Trump ha sempre favorito l’impressione che, sotto la sua amministrazione, alleati e avversari corrono tutti il rischio di andare incontro a schiaccianti ritorsioni. Solo mettendo in dubbio la necessità stessa della Nato, al punto da rendere credibile un eventuale disimpegno degli Stati Uniti, Trump ha ritenuto di poter costringere i membri a onorarne gli impegni. In questo, è da notare come, nonostante il suo deciso rifiuto di impegnarsi nelle guerre tipiche degli internazionalisti conservatori e degli internazionalisti progressisti, l’enfasi posta da Trump sull’opportunità di colpire i nemici per tramite di massicci bombardamenti punitivi, e di aumentare notevolmente il bilancio della Difesa, lo ha allontanato da qualsiasi isolazionismo, frustrando ogni tentativo di ricondurne l’operato alle più classiche categorie della politica statunitense.

Alla fine, Trump ha mantenuto la maggior parte delle sue promesse, ritirando gli Stati Uniti da trattati risalenti a un passato ormai lontano, come il Trattato cieli aperti e il Trattato per le forze nucleari a raggio intermedio, cancellando molte delle aperture inaugurate da Obama nei confronti di Cuba, mantenendo il regime venezuelano sotto pressione, annientando lo Stato Islamico, affrontando la Corea del Nord per fermarne tanto il programma nucleare quanto quello missilistico, ritirandosi dall’accordo sul programma nucleare iraniano, avvicinandosi alle monarchie del Golfo, evitando la balcanizzazione dell’Ucraina e fornendo a Israele un sostegno quasi privo di precedenti.

In particolare, quanto sia stata fruttuosa la sua politica mediorientale, è più che evidente nella svolta registrata nei rapporti tra Israele e importanti altri attori regionali quali il Bahrein ed Emirati Arabi Uniti, oltre che nell’esser riuscito a metter in ginocchio l’Iran. Il tutto, per la prima volta in quarant’anni, senza impegnare gli Stati Uniti in nessuna nuova grande operazione militare.

La strategia di massima incertezza implementata da Trump, ha poi spinto tanto la Cina quanto l’Unione Europea a rinegoziare almeno alcuni degli aspetti dei relativi squilibri commerciali, mentre Trump ritirava gli Stati Uniti dall’accordo sul clima di Parigi, distruggeva il Partenariato Trans-Pacifico e sostituiva il vecchio accordo per il libero scambio con il Canada e il Messico con un nuovo trattato che, persino il suo diretto rivale, l’ex vicepresidente Joe Biden, pochi giorni fa ha riconosciuto come più vantaggioso per gli Stati Uniti

 

 

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