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Trump zitto zitto cambia gli equilibri in Medio Oriente. E a Washington DC…

La doppia candidatura al Nobel per la Pace per Donald Trump ha conquistato le pagine dei giornali e i siti di informazione. Il riconoscimento di Israele da parte di Emirati Arabi Uniti e Bahrein, assieme alla pax economica tra Kosovo e Serbia, viene letto da molti commentatori — negli Stati Uniti e in Italia — in chiave elettorale. Ma quali sono le ripercussioni geopolitiche nella regione mediorientale?

La scelta del Bahrein di seguire gli Emirati Arabi Uniti nella normalizzazione dei rapporti con Israele rappresenta un passo avanti per il cambiamento in Medio Oriente. A sostenerlo è David Ignatius, grande firma del Washington Post, che sottolinea l’importanza della “nuova generazione” di leader mediorientali e della benedizione dell’Arabia Saudita (due anni fa il principe Mohammed bin Salman dichiarò all’Atlantic che “gli israeliani hanno diritto a un loro territorio”): “I sauditi hanno storicamente esercitato ciò che equivale a un veto sulla politica del Bahrein. In questo caso, i sauditi hanno appoggiato silenziosamente la decisione del loro piccolo vicino, piuttosto che porre il veto”, scrive Ignatius evidenziando poi come Jared Kushner, genero e consigliere del presidente Donald Trump oltre che regista della sua politica mediorientale, sia convinto che Riad stia “aspettando di vedere come si svolgerà il processo di normalizzazione prima di fare la sua mossa”.

Sudan, Oman, Marocco potrebbero essere i prossimi Paesi a normalizzare i rapporti con lo Stato ebraico, che può contare su un’altra vittoria diplomatica: il leader palestinese Mahmoud Abbas non è riuscito a ottenere la condanna della Lega Araba alla decisione degli Emirati Arabi Uniti. “Questo è un altro segno del fatto che i palestinesi hanno perso il loro potere di veto sulle decisioni arabe riguardanti Israele”, scrive Ignatius.

NEMICO COMUNE: IRAN

“Il Bahrein si sente estremamente minacciato dall’Iran, che vede promuovere le proteste della maggioranza sciita del Bahrein contro la monarchia sunnita”, ha notato Barbara Slavin, a capo dell’Atlantic Council’s Future of Iran Initiative. Teheran vedrà gli ultimi sviluppi nella regione “sicuramente come una brutta notizia” per Sina Azodi, nonresident fellow del Rafik Hariri Center dell’Atlantic Council: “Dato che il Bahrein faceva parte dell’Iran fino al 1971, molti in Iran vedono ancora il Bahrein culturalmente e religiosamente molto vicino all’Iran. Teheran, come al solito, adotterà probabilmente una retorica dura ma non ci si dovrebbe aspettare alcuna azione significativa da Teheran”.

Di “cattive notizie per Hezbollah e Teheran” parla Joze Pelayo dello Scowcroft Middle East Security Initiative dell’Atlantic Council. “Oggi il Bahrein continua ad affrontare tattiche di guerra convenzionali e non convenzionali iraniane attraverso le sue milizie (come Hezbollah e Saraya al-Ashtar) tra cui disinformazione, guerriglia urbana contro la sicurezza pubblica, sovversione interna e interferenze esterne”. Per questo “una maggiore cooperazione in materia di sicurezza e la costruzione di relazioni tra Israele e Bahrein potrebbero essere una buona cosa”, sostiene l’analista. “Ciò offrirà più leva ai Paesi del Golfo (e forse anche uno scossone a una leadership palestinese paralizzata) per sostenere la ripresa dei colloqui? Solo il tempo lo dirà. Tuttavia, una generazione più giovane e aspirante di palestinesi non può essere lasciata fuori mentre si va avanti e, si spera, saranno loro a guidare il cambiamento lontano da un ottuagenario da tempo al potere come il loro leader”.

UN PASSO VERSO LA PACE?

“Se i sauditi passano alla normalizzazione senza nulla di significativo per i palestinesi, allora possiamo tranquillamente presumere che non ci sarà alcun incentivo per Israele a muoversi verso la statualità o porre fine alla sua occupazione”, ha spiegato Khaled Elgindy, senior fellow del Middle East Institute ed ex consigliere della leadership palestinese, al New York Times. “Non ci sarà più effetto ‘leva’. Tutti gli altri normalizzeranno” i rapporti con Israele.

Martin S. Indyk, già ambasciatore statunitense in Israele durante l’amministrazione Clinton e inviato di pace in Medio Oriente con Barack Obama, ha spiegato al New York Times che “l’importanza di questo è molto più strategica che legata alla pace”. Una conclusione simile a quella a cui giugno Ignatius, che però dimostra ottimismo evidenziando come le decisioni di Manama e Abu Dhabi non rappresentino la pace in Medio Oriente ma “per una regione che a volte sembra essere al rallentatore, è un elemento fondamentale per un futuro migliore”.

A tal proposito Bruce Riedel, ex analista della Cia oggi senior fellow della Brookings Institution, ha parlato al Wall Street Journal dell’eredità che Trump lascerebbe a Joe Biden: “Segni immediatamente punti presso l’amministrazione Trump, ma da gennaio ne guadagni anche presso l’amministrazione Biden, dato che è molto più probabile che questa sollevi questioni di diritti umani”.


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