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Le dimensioni del voto e le sfide per i partiti. L’analisi di Risso (Ipsos)

Le elezioni regionali e il risultato del referendum costituzionale ci restituiscono la fotografia di un Paese che procede nella sua fase di transizione, alla ricerca di una nuova dimensione politico-identitaria e della generazione di un domani con minori incertezze e maggiori solidità. Una istantanea su cui incombe la pesante ombra della pandemia, che condiziona scelte e vision di futuro, ma anche le percezioni emotive e le attese delle persone.

Dalla duplice tornata elettorale emerge una realtà multi-sfaccettata, in cui appare poco fruttifera la ricerca di chi ha vinto o di chi ha perso ma, probabilmente, risulta più proficuo cercare di cogliere alcune dinamiche in atto nella società e di estrinsecarle nella loro complessità e nella loro ossimoricità.

Analizzando i risultati elettorali, sia delle regionali, sia del referendum costituzionale, è possibile enucleare alcune, non esaustive, dimensioni politiche.

1. LA PRIMA DIMENSIONE. LA SPINTA ANTI-ÉLITE

La prima dimensione è quella delle perduranti pulsioni e spinte anti-élite. Il 52% degli italiani avverte le élite come nemiche della gente (fonte Ipsos, indagine settembre 2020), mentre solo il 28% non condivide questa opinione (il 21% non si esprime). Una posizione cui aderiscono il 53% dei Millennials, il 56% dei Baby boomers e i residenti al sud e nelle Isole (53%). La pulsione anti-élite mantiene, inoltre, un tratto sociale trasversale, pur con accentuazioni differenti nelle diverse classi sociali. Nella middle class, ad esempio, arriva al 48%, mentre nei ceti popolari è decisamente più marcata: 57%.

Le pulsioni anti-élite si sono espresse in modo evidente nel voto referendario, sia nell’accentuazione territoriale con il 72,8% dei “Sì” nel centro sud (Lazio, Abruzzo, Molise e Campania) e il 74,9% nel Sud (Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, Sardegna); sia nelle differenziazioni di classe e tra centro e periferia. Il voto si è differenziato tra città metropolitane e realtà provinciali, con una maggiore concentrazione dei “No” nel cuore dei centri urbani maggiori e una netta prevalenza dei “Sì” nelle realtà più piccole e nell’hinterland periferico urbano. Il ceto medio di professionisti, dirigenti e imprenditori ha votato in modo più calmierato per il “Sì” (59,3%), mentre tra operai e affini il dato è volato al 76,7% (onte: analisi post voto referendario predisposta da Ipsos e pubblicata sul Corriere della Sera).

La peculiare evidenza che ci riporta questa tornata elettorale referendaria è determinata dalla impermeabilità tra la spinta anti-casta e il movimento fondato da Beppe Grillo. Nonostante l’election day, nelle regioni in cui si è votato anche per l’elezione del nuovo governatore, le persone non hanno premiato il partito che ha fatto del taglio dei parlamentari il proprio cavallo di battaglia. Va detto, per dovere di precisione, che M5S non ha mai brillato nelle competizioni regionali e locali, ma in questa tornata non si sono notati peculiari effetti benefici della lotta referendaria sul voto al partito. Guardando i risultati emersi dalle urne possiamo notare che in Liguria il movimento ha dimezzato i consensi, passando dal 16,49% delle europee del 2019 al 7,71% di oggi. In Campania il calo è stato di oltre i due terzi, scendendo dal 33,85% al 9,99%. In Puglia è passato dal 26,29% al 9,86%, mentre nelle Marche è sceso al 7,12%, rispetto al 18,43% delle europee. Analoga dimensione del calo è riscontrabile in Toscana con il passaggio dal 12,68% al 7,02% (fonte: ministero degli Interni e siti regionali per Toscana e Marche, dati aggiornati al 22 settembre 2020).

2. LA SECONDA DIMENSIONE. UN VOTO ALL’INSEGNA DELL’ISTINTO AMMINISTRATIVO

Una seconda dimensione che porta con sé il voto del 20 e 21 settembre si incarna nella ricerca di stabilità e concretezza di tutela e governo locale (prodotto deciso dell’ombra del Covid). Una spinta che ha avuto effetti sull’identità del voto regionale: da competizione a decisa caratura politica, ha assunto le dimensioni e i connotati di una partita ad alta valenza amministrativa. Le persone, in ragione del Covid, hanno scoperto il ruolo e la funzione dei loro presidenti regionali. La pandemia ha avvicinato i governatori ai cittadini e, non a caso, in tutti i mesi del lockdown la fiducia in gran parte di essi è cresciuta. In questa tornata elettorale, si è accentuato l’istinto amministrativo degli elettori, calmierando e, in certi casi, mettendo in secondo piano le tifoserie, le fedeltà partitiche, i temi e le issue politico-valoriali su cui si confrontano i partiti a livello nazionale.

Ne sono un esempio alcuni successi personali di presidenti come Michele Emiliano in Puglia e Vincenzo De Luca in Campania, i successi di Zaia e Toti in Liguria, nonché i risultati in Toscana e Marche. Michele Emiliano ha preso 111.296 voti personali (+14,6%), rispetto ai 30.392 voti accumulati dal suo contendente Raffaele Fitto (+4,3%). Lo stesso è accaduto in Campania, con De Luca che ha raccolto 172.462 voti in più della sua coalizione (+10,6%), mentre il suo concorrente ne ha raccolti 14.065 (+3,1%).

Nelle Marche e in Toscana, le dimensioni si muovono sulla stessa onda, anche se in direzioni opposte. Nelle Marche il centrodestra, guidato dall’ex sindaco di Potenza Picena, è apparso (pur con un calo di consensi rispetto alle europee: i tre partiti della coalizione sono passati dai 378mila voti delle europee ai 292mila voti delle regionali) come la coalizione in grado di incarnare il vento del cambiamento che da tempo spira in regione. In Toscana, Eugenio Giani (che conquista 102mila voti in più della coalizione) è risultato, all’occhio dell’elettorato toscano, come un’offerta politica moderata e di stabilità più convincente della sua avversaria (che riceve 62mila voti in più della sua coalizione).  In questa regione, tuttavia, come è stato per l’Emilia Romagna a gennaio 2020, il dato principale non è legato solo alla tenuta del centrosinistra, ma al fatto che anche questa realtà, di storico insediamento di sinistra, è diventata contendibile da parte del centrodestra. Se confrontiamo i risultati delle regionali in Emilia Romagna con quelli della Toscana, possiamo osservare, inoltre, che la distanza tra i candidati di centrodestra e centrosinistra è stata maggiore in Toscana (+8,2% per Giani) rispetto a quanto accaduto all’elezione emiliano-romagnola (+7,8 per Bonaccini).

3. LA TERZA DIMENSIONE. LA NASCITA DEI PARTITI LOCAL-PERSONALI DI ALCUNI PRESIDENTI

Questa seconda dimensione (l’istinto amministrativo con cui hanno votato le persone) ha generato anche una terza dimensione che qualifica questa tornata elettorale: la partitizzazione del consenso individuale dei governatori.

Laddove i candidati presidenti hanno messo in campo una propria lista personale, hanno non solo ricevuto consensi, ma hanno dato vita anche a un vero e proprio partito local-personale, che in alcuni casi è divenuto anche il primo gruppo politico regionale.

Ne sono un esempio l’exploit della lista Zaia in Veneto, che è il primo partito in regione con il 44%; la lista Toti presidente in Liguria che è il primo partito regionale con il suo 22,6%. Successo anche per De Luca presidente in Campania che prende 313.666 voti e raggiunge il 13,3% dei consensi, divenendo il secondo partito in regione (superato solo dal Pd, con il 16,9%). Buon risultato anche per “Con Emiliano”, in Puglia, che porta a casa 110.559 voti e raggiunge il 6,59% dei consensi. In questo caso, tuttavia, non si può ancora parlare di un vero partito personal-locale, ma, per il momento, di una classica lista di consenso intorno alla figura del candidato presidente, su cui sono confluiti i voti di quanti, come ad esempio l’11% di elettori leghisti e il 5% di pentastellati, non volendo votare un partito della sua coalizione, ha trovato facile optare per la lista.

4. LA QUARTA DIMENSIONE. L’ASSENZA DEI DRIVER EMOZIONALI SPINGE UNA PARTE DELL’ELETTORATO VERSO L’ASTENSIONE

Una quarta dimensione di questa tornata elettorale riguarda l’assenza dei driver emozionali e pulsionali nella scelta di voto, che ha lasciato a casa quella parte di elettorato che si reca alle urne per istinto partigiano o su specifiche issue ad alto grado emozionale.

Una quota dell’elettorato leghista e pentastellato ha disertato le urne, non avendo avvertito un particolare richiamo ai temi e alle issue di riferimento, quelle che scaldano i loro cuori e che fungono da driver alla partecipazione al voto (in questo ambito, come abbiamo analizzato nella prima dimensione il richiamo anti-casta referendario non sembra aver funzionato per i pentastellati).

Alcuni dati sono esemplificativi. In Campania, rispetto alle europee, le tre forze di centrodestra (Lega, Fdi e Fi) hanno perso complessivamente 450 mila voti che sono confluiti in parte verso l’astensione (il 21% degli elettori Lega alle europee ha preferito restare a casa): si è passati dagli 845mila voti del 2019, agli attuali 395mila. In Puglia il calo è stato di oltre 200 mila voti, passando da 722mila a 521.599. Anche in Toscana il calo è stato significativo, passando da 789 mila voti a 638mila. Solo in Veneto e Liguria la coalizione di centrodestra ha mantenuto gli stessi consensi delle europee, con un travaso di voti interno verso le liste dei candidati presidenti.

5. LA QUINTA DIMENSIONE. IL RUOLO DEI CANDIDATI, TRA STABILITÀ E CAMBIAMENTO

Una quinta dimensione, infine, è legata a doppia mandata al tema del rapporto complesso che esiste tra le figure dei candidati presidenti e la capacità di incarnare il mood locale che oscilla tra cambiamento e stabilità. Lo sfarinamento del voto di centrodestra in Puglia e Campania e la vittoria nelle Marche, evidenzia questo doppio legame. I risultati di Raffaele Fitto e Stefano Caldoro mostrano (senza alcun intento di giudizio o valutazione sulle capacità e sul profilo personale dei candidati) quanto la ricandidatura di soggetti che hanno già ricoperto determinati ruoli, generi un effetto déjà-vu intorno ai candidati, facendo perdere di freschezza e di spinta innovativa alla proposta politica di una coalizione (specie se, in una fase come questa, deve andare all’assalto di avversari in carica, che hanno guidato le regioni nella fase complessa del Covid).

Allo stesso tempo, in Toscana, la candidata del centrodestra Susanna Ceccardi, pur rappresentando una novità, è riuscita a conquistare un numero inferiore di voti personali del suo avversario (l’8,6% in più di voti rispetto alla coalizione a fronte dell’11,8% di Eugenio Giani). La sua candidatura (sempre senza alcuna valutazione o giudizio sui meriti e sulle capacità personali) non è riuscita a fare breccia nel cuore dell’elettorato toscano e non è riuscita a incarnare una proposta di cambiamento affidabile in grado non solo di riportare al voto tutti i 789mila elettori che avevano scelto la Lega, o Fdi o Fi alle europee, ma di conquistare anche gli ulteriori 75mila consensi necessari per battere l’avversario.

La medesima dinamica, ma in senso inverso, la incontriamo nelle Marche. Il candidato di centrosinistra Maurizio Mangialardi, pur prendendo il 17% dei consensi in più della coalizione (mentre il suo avversario vincente di centrodestra ha portato a casa il 10% in più dei partiti che lo sostenevano) non è riuscito a fare argine e a invertire la spinta al cambiamento che si era innescata nell’elettorato e che alle europee aveva già portato i partiti di centrodestra a sfiorare il 50% dei consensi in regione (Francesco Acquaroli alle regionali ha preso il 49,13%).

6. LO STATO DI SALUTE DAI VARI PARTITI CHE EMERGE DALLE URNE

Oltre a queste cinque dimensioni, lo scenario che affiora dalla tornata elettorale del 20 e 21 settembre porta a compimento il percorso politico innescatosi negli ultimi anni e che ha condotto il centrodestra alla guida di 15 regioni (e anche in Valle d’Aosta, a prescindere dalle alleanze di governo, la Lega è il primo partito), tra cui le due storiche rosse Umbria e Marche.

In questa tornata elettorale si conferma, inoltre, il costante e progressivo sfarinamento dei consensi dei Cinquestelle e l’infragilimento assottigliante di Forza Italia. Il partito di Di Maio, Crimi, Fico, Di Battista e Grillo non ha mai raggiunto buoni risultati nelle competizioni regionali, ma in questa tornata, in tutte le regioni, i pentastellati hanno registrato consensi al di sotto del 10%. I risultati non sono stati positivi sia nell’esperienza di alleanza con il centrosinistra come in Liguria (è sceso dal 16,49 delle europee al 7,78 di oggi), sia nelle realtà in cui ha fatto la corsa solitaria con un proprio candidato (in Puglia, ad esempio, è passato dal 26,29% al 9,86%).

Per il Partito Democratico i segnali sono di tenuta (cede tra il 2-3% e spesso verso le liste dei presidenti o liste locali) e in Puglia il partito guidato da Zingaretti ha guadagnato consensi rispetto alle europee. In ogni caso il Pd emerge da questa tornata elettorale come il perno indispensabile di qualunque coalizione avversa a Salvini, Meloni e Berlusconi.

Nel centrodestra il passaggio di consensi tra Fdi e Lega sembra rallentato, anche se il partito di Giorgia Meloni consolida le proprie posizioni in quasi tutti i territori, con crescite che vanno dal 3% della Puglia al 13% delle Marche.

La Lega vive un processo di assestamento e contrazione dei consensi rispetto alle europee. Paga sia il flusso di voti verso le liste dei propri candidati presidente (come in Veneto e Liguria), sia in regioni come Puglia e Campania, la fuoriuscita di consensi verso le liste dei candidati presidenti avversi (11% sulla lista di Emiliano e 13% su quella di De Luca). In queste regioni, ma anche in Toscana (-230mila voti) e nelle Marche (-130mila voti) la Lega subisce, inoltre, un flusso di voti verso l’astensione. Segno questo, sia della difficoltà del partito di riportare al voto nella corsa regionale i consensi conquistati nelle competizioni a maggior tasso identitario politico, sia della necessità di prestare maggiore attenzione nella scelta dei candidati allo scranno regionale, sia dell’esigenza di rimodulare e articolare il proprio modello di azione politico-identitaria.

7. LE SFIDE PER I PARTITI

Le ultime elezioni raccontano un Paese che, sotto l’influsso del Covid, oscilla tra rabbia (23%) e paura (18%), tra attesa (37%) e ansia (40%), tra incertezza (61%) e tristezza (26%; fonte Ipsos, settembre 2020). Un’Italia il cui cuore profondo ondeggia tra il bisogno di stabilità, di certezze e le spinte al cambiamento. Un Paese alla ricerca di un progetto di futuro in grado di affrontare le differenze sociali e le diseguaglianze (46% si sente escluso); di fare i conti con le pulsioni radicali emergenti (il 31% pensa sia necessaria una rivoluzione per cambiare il Paese, quota che sale al 43% nei ceti popolari) e con la crescita di tensioni sociali (il 51% dell’opinione pubblica ipotizza ondate di protesta contro ricchi e privilegiati. Dati fonte Ipsos, settembre 2020).

L’Italia, inoltre, è il primo Paese, a livello globale, per livello di preoccupazione sul fronte del lavoro (62%). Nel nostro continente vicino ai dati italiani troviamo solo la Spagna (59%). Per rintracciare il terzo Paese europeo bisogna scendere al 39% della Francia, mentre in fondo alla classifica c’è la Germania al 19% (dati fonte Ipsos, What Worries the World, ricerca condotta in 27 Paesi nel luglio 2020).

Il quadro che si va delineando pone di fronte a tutte le forze politiche una sfida peculiare e intensa, su cui saranno giudicate dal corpo elettorale: quella della capacità di progettare l’Italia del domani. È una sfida complessiva, di vision e identità dell’Italia, è una sfida sul futuro, su che Paese saremo.

Gli italiani giudicheranno le forze politiche non solo su come proporranno di spendere ragionieristicamente i fondi europei in arrivo, ma su quale sarà il disegno, il progetto di domani; sulla capacità di affrontare le fratture e le diseguaglianze sociali; sulla determinazione nel far ripartire la macchina economica del Paese, generando benessere (per molti e non solo per pochi), più giustizia e dinamismo sociale, più armonia.

Le persone non cercano liste della spesa, ma un progetto di risollevamento e cambiamento complessivo del Paese e della sua economia. Per tutte le forze politiche vale, quindi, il monito del pubblicitario francese Jacques Séguéla: “Le persone votano per il futuro non per il passato”. E in Italia c’è fame di futuro. Di un domani marcato dalla stabilità, da una maggiore armonia sociale, dalla riduzione dell’incertezza e della precarietà.


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