La situazione politica italiana è sempre più paradossale. Che il governo fosse debole e sorretto da una maggioranza che probabilmente non è tale nel Paese, e divisa su molti punti, era evidente dall’inizio e lo abbiamo già sottolineato più volte. D’altronde, le due maggiori forze che la compongono si erano presentate come antagoniste in campagna elettorale. Ma che esse fossero così divise anche al loro interno, singolarmente prese, e in più in una profonda crisi d’identità, lo stiamo scoprendo con sempre maggiore chiarezza proprio in questi giorni.
Se poi aggiungiamo l’attivismo inconsulto e il “vorrei ma non posso” (leggi: far cadere Conte), di Matteo Renzi con la sua Italia Viva, il quadro è pressoché completo (i più a sinistra dello schieramento, quelli di Leu, forse perché hanno perso la speranza nel “sol dell’avvenire” e devono accontentarsi del mite Speranza, sono i più tranquilli di tutti). Tutti sembrano giocare, all’ombra del governo che appoggiano, una propria partita. E lo stesso Presidente del Consiglio, un po’ per barcamenarsi e un po’ per crearsi una fisionomia autonoma (e spendibile in futuro), sembra giocare una partita tutta sua e personale. E ciò mentre l’interesse dell’Italia sarebbe quello di programmare bene una ripresa che, economica e morale, sembra sempre più difficile stante il contesto politico in atto.
La settimana e il mese di settembre sono perciò cominciati come peggio non si poteva per la maggioranza. Lunedì mattina, affidata a Repubblica, Nicola Zingaretti ha scritto una lettera che è suonata come un vero e proprio Sos ai tanti che nel suo partito, a cominciare dagli intellettuali e dalla stampa di riferimento, compreso lo stesso quotidiano diretto da Molinari, si stanno schierando per il No al referendum di modifica costituzionale sul “taglio dei parlamentari”. Al segretario si contesta il voto parlamentare a favore (dopo tre no consecutivi nella passata legislatura), per di più concesso senza adeguate garanzie da parte dei grillini, e dello stesso Conte, a che le riforme elettorali e regolamentari chieste a “correzione” del demagogico provvedimento fossero rapidamente approvate.
Ora, prima di convocare la direzione, Zingaretti ha necessità che il testo base di riforma elettorale sia portato almeno in Commissione alla Camera. Impresa, come il resto, non facile visto il disinteresse degli altri e l’ostruzionismo di un Renzi alla perenne ricerca di uno spazio politico e di visibilità. Più in generale, a Zingaretti si contesta una scarsa presa sulle politiche del governo e una sudditanza verso Conte che riduce in pratica, agli occhi degli elettori, quello che fu un partito (anche) di idee a un gruppo di potere legato solo alle poltrone.
Da questo punto di vista, le stesse elezioni regionali del 20 e 21 settembre possono rivelarsi una catastrofe per il Partito, che potrebbe perdere addirittura sei Regioni su sette (l’unica vittoria sicura del centrosinistra, quella in Campania, se la intesterebbe un De Luca che gioca una partita tutta personale e distante se non critica verso la dirigenza centrale). Soprattutto la perdita della Toscana, storicamente “rossa”, potrebbe generare una reazione a catena che dalla leadership di Zingaretti arriverebbe ad insediare quella dello stesso Conte. Del tutto velleitario è sembrato a tal proposito l’entusiasmo manifestato dai dirigenti del Partito per il voto ferragostano sulla piattaforma Rousseau che in sostanza sembrava avere aperto la possibilità di alleanze a tutto raggio fra Pd e Cinque Stelle già per le regionali. Cosa che non solo non si è realizzata, ma che sempre più sembra improbabile anche in altre situazioni future anche per il palese processo di implosione a cui sta andando incontro il Movimento di Grillo.
E giungiamo così al secondo episodio della settimana, quello potenzialmente più deflagrante per il governo. Che nei grillini tutti fossero l’un contro l’altro armati, che Davide Casaleggio fosse sempre più isolato, che Crimi non avesse possibilità di fare il reggente, che Di Maio fosse una spina nel fianco per tutti e il vero ras, lo sapevamo. Ma che addirittura si arrivasse a una fronda contro Conte, sempre più mal sopportato, e quindi contro il governo, non era dato aspettarselo. Che dietro la deputata Dieni ci sia stata una “manina” o una “manona”, o che abbia fatto invece tutto da sola, poco importa. Il dato politico è evidente: ben cinquanta deputati hanno firmato il suo emendamento e altrettanti, o quasi, non si sono presentati al voto di fiducia posto da Conte. Intanto, un’altra deputata, la siciliana Aiello, abbandona il Movimento. Basterà la vittoria del sì a ricucire un po’ di pezzi in casa pentastellata? E fino a quando durerà la ricucitura? Il paradosso politico potrebbe diventare un incubo per il Paese, che mai come in questo momento avrebbe bisogno di un governo e di una maggioranza forti e autorevoli.