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Le donne dell’Isis, madri o terroriste? Il caso Brignoli letto da Dambruoso e Conti

Di Stefano Dambruoso e Francesco Conti

Il 29 settembre con un’operazione del Raggruppamento operazioni speciali (Ros) dell’Arma dei Carabinieri coordinata con l’intelligence di altri Paesi è stata rimpatriata in Italia Alice Brignoli assieme ai suoi tre figli minori. La donna si trovava da tempo nel campo di detenzione di Al-Hawl, dove sono tenuti sotto controllo migliaia di aderenti al Califfato dopo la sua sconfitta. Alice Brignoli era partita da Lecco con il marito, Mohamed Koraichi, nel 2015 per unirsi all’Isis, rispondendo alla chiamata del Califfo Abu Bakr al Baghdadi che aveva chiesto ai suoi sostenitori di compiere l’Hijira, cioè, seguendo i dettami del gruppo, abbandonare i territori dei miscredenti per raggiungere le zone della Siria e Iraq sotto il controllo dell’organizzazione jihadista, il cosiddetto dar al-Islam.

I PRECEDENTI

Non è la prima volta che il nostro Paese rimpatria singoli cittadini italiani, ovvero interi nuclei familiari dal teatro siro-iracheno. Nello scorso giugno, un’operazione congiunta Digos-Aise aveva riportato in Italia il foreign fighter Samir Bougana, in precedenza catturato dalle milizie curde. L’operazione, che aveva fruito anche del supporto dell’Fbi, ha ricevuto il plauso dell’amministrazione statunitense, che da sempre esorta i propri alleati a farsi carico dei propri cittadini arruolatisi nell’esercito dell’auto proclamato Stato islamico per processarli o recuperarli con programmi di deradicalizzazione. L’intelligence infatti ha da tempo valutato il rischio della permanenza in Siria e Iraq dei miliziani catturati, dove, nonostante la sconfitta territoriale dell’Isis, sono comunque ancora presenti numerosi sostenitori del gruppo terroristico, anche all’interno degli stessi campi di detenzione gestiti dai curdi. La nostra Intelligence è riuscita poi a rimpatriare un minore, Alvin Berisha, che aveva fino ad allora vissuto quasi metà della sua vita sotto le bandiere nere dell’Isis. L’operazione, molto complessa, ha coinvolto sia la Polizia di Stato che l’Arma dei Carabinieri, con l’importante supporto della Croce rossa internazionale e della Mezzaluna rossa. Il rimpatrio del giovane Alvin è stato una concretizzazione di multi-agency case management, cioè un’operazione che coinvolge più soggetti, non solo fra le forze di polizia e le agenzie di intelligence, per riportare individui in patria nel modo meno traumatico possibile, con tecniche cioè da anni predicate dalla Commissione europea in materia di counter-terrorism grazie alla diffusione dei programmi sviluppati all’interno del Radicalisation Awareness Network dell’Unione.

IL QUADRO ONU

Le Nazioni Unite hanno più volte esortato gli Stati membri ad adottare strategie di contrasto penale, di riabilitazione e di reintegrazione dei propri cittadini rimpatriati che si sono uniti all’Isis. Con risoluzione 2396 del Consiglio di Sicurezza le Nazioni Unite hanno inteso sottolineare come la cooperazione e il coordinamento a livello internazionale e regionale, non solo sul piano dello scambio di informazioni, ma anche per quanto riguarda il piano giudiziario, sia essenziale per identificare i foreign fighter di ritorno che possano presentare una minaccia alla sicurezza.

Nonostante l’appello dell’Onu, non vi è ancora un approccio comune nel rimpatrio dei foreign fighter, delle donne e dei minori; i Paesi membri hanno infatti adottato strategie nazionali differenti.

NEL REGNO UNITO

Nel Regno Unito ha avuto molto risalto mediatico la questione di Shamina Begum, che lasciò l’Inghilterra all’età di 15 anni per recarsi in Siria. Identificata nel campo di detenzione di Al-Hawl (lo stesso luogo dove è stata trovata Alice Brignoli) nel febbraio 2019, contemporaneamente all’inizio della campagna finale contro l’Isis culminata nella battaglia di Baghouz, la donna aveva manifestato il desiderio di voler tornare in patria. Richiamando la priorità della sicurezza nazionale, il governo di Sua maestà, non convinto dalle ambigue dichiarazioni di pentimento della stessa ha deciso di revocarle la cittadinanza britannica, rendendola di fatto apolide, in contrasto con la convenzione internazionale sulla riduzione dell’apolidia del 1961, di cui il Regno Unito è parte. I legali della giovane stanno attualmente contestando la decisione del governo britannico, che è stata infatti ribaltata in appello.

ALTRI ESEMPI

Il fenomeno dei rimpatri sta riguardando i Paesi di tutto il mondo, non solo europei, tutti toccati dalla presenza dell’Isis. Il Kazakistan, per esempio, da questo punto di vista è considerato un “Paese virtuoso”, avendo condotto operazioni in Siria che hanno portato al rimpatrio quasi di 600 cittadini, la maggioranza dei quali minori, per far loro intraprendere un percorso di deradicalizzazione. L’Indonesia, invece, con una decisione criticata, ha deciso di rimpatriare solamente i bambini orfani minori di 10 anni, lasciando quindi quelli di età superiore nel limbo dei centri di detenzione della Siria nord-orientale. Tale impostazione sarebbe contraria sia al diritto interno indonesiano che al diritto internazionale (nello specifico la Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia), dove i minori di anni 18 non sono considerati adulti. I minori per il diritto convenzionale internazionale devono quindi essere considerati vittime del terrorismo e non correi autori delle violenze perpetrate dall’Isis (in alcuni casi infatti sono stati utilizzati ragazzini e bambini a scopo propagandistico).

MOGLI O TERRORISTE?

La questione più importante che riguarda le donne unitesi al Califfato ruota attorno al ruolo che esse hanno svolto in Siria o Iraq: sono state passive collaboratrici dei loro uomini, senza alcuna autonoma capacità di scelta o hanno maturato ed attuato con convinzione il programma terroristico. Una risalente analisi sui costumi del mondo musulmano ha spesso portato erroneamente a considerare le donne dell’Isis come mere esecutrici subalterne alle esclusive decisioni di loro uomini.

La differente valutazione porta a conseguenze penali molto diverse. Alcune hanno semplicemente accompagnato i propri mariti o fratelli, svolgendo un ruolo prevalentemente passivo che le ha viste confinate alla sfera domestica, mentre altre hanno preso parte alle attività di propaganda e di reclutamento dell’organizzazione jihadista (soprattutto nei confronti di altre donne), prendendo in alcuni casi parte a scontri armati. La Risoluzione 2396 del Consiglio di Sicurezza spiega come, nonostante il luogo comune spesso enfatizzato dai media, che vede le donne dell’Isis come semplici spose di foreign fighter, alcune di esse hanno invece partecipato nella pianificazione e/o esecuzione di attentati terroristici. Il problema dell’identificazione del ruolo è complicato dal fatto che la raccolta di informazioni sul campo è molto difficile, essendo assai difficoltoso inviare personale investigativo in Siria e Iraq, soprattutto nelle zone controllate dalle milizie curdo-siriane, il cui territorio non è riconosciuto da alcuno stato. Di recente Eurojust (l’agenzia di cooperazione giudiziaria dell’Unione europea) ha pubblicato un manuale che ha lo scopo di “razionalizzare” la raccolta di tutte le informazioni raccolte: quelle provenienti dalle forze militari impegnate contro l’Isis, cosi come quelle inviate da organizzazioni non governative sul campo; ma anche quelle rinvenibili e pubblicate dai social media dei foreign fighter così come quelle tratte dai documenti prodotti dalla stessa organizzazione terroristica. Questo allo scopo di rafforzare la possibilità che tali fonti di prova possano essere ritenute utilizzabili nel processo.

IL CASO BRIGNOLI

Nel caso di Alice Brignoli, invece, la Procura di Milano l’ha ritenuta coinvolta in attività di proselitismo e reclutamento a favore di Daesh; la sua figura è infatti legata a due cittadini di origine marocchina che avevano intenzione di compiere attentati in Italia, circostanza che ha portato la Procura meneghina ad indagarla per associazione con finalità di terrorismo anche internazionale, ai sensi dell’articolo 270 bis del codice penale.

La vera preoccupazione per gli analisti è però quella relativa ai suoi figli minori: saranno recuperabili con un lungo lavoro di deradicalizzazione, che coinvolga anche la loro madre attualmente in carcere? Ma soprattutto: quanto si dimostreranno efficaci i programmi di deradicalizzazione in Italia, Paese in cui non è stata ancora approvata una specifica legge sul contrasto alla radicalizzazione?

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