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Cosa resterà del dibattito tra Trump e Biden. L’analisi di Martino

La tentazione è di quelle irresistibili, ma all’indomani di un dibattito del tipo di quello che ha contrapposto il presidente Donald Trump e l’ex vicepresidente Joe Biden non bisognerebbe mai chiedersi chi ne sia uscito vincitore. Questo non solo perché è praticamente impossibile fissare dei criteri oggettivi per attribuire la vittoria a questo oppure a quel candidato, ma anche perché è forse ancora più difficile stabilire a caldo cosa comporti aver vinto un simile duello. Quello che invece si può fare è cercare di capire cosa, di quanto è stato detto e fatto, resterà nei ricordi di un pubblico che, in questo caso, si è stimato dell’ordine di un centinaio di milioni di persone, vale a dire oltre la metà dell’elettorato. A questo fine, è possibile analizzare il dibattito da almeno tre punti di vista. Il primo è l’interazione tra i due partecipanti, il secondo sono i contenuti delle discussioni e il terzo è il tono che ha contraddistinto l’evento.

I DUELLANTI

Per quanto riguarda il primo punto, a ben guardare i partecipanti al dibattito di Cleveland, in Ohio, non sono stati due ma tre, perché Chris Wallace, ha di fatto abbandonato il suo ruolo di moderatore. Cosa questa, dopo tutto, non particolarmente sorprendente, visto che Wallace non ha mai nascosto la sua militanza per il Partito democratico. Fin dalle prime battute, Wallace ha permesso a Biden d’interrompere Trump, ma è sempre intervenuto per bloccare il presidente quando questi cercava di mettere in difficoltà Biden. Wallace, inoltre, non ha mai davvero incalzato con le sue domande l’ex vicepresidente. Anzi, a volte gli è stato di diretto aiuto, come quando è arrivato a leggere parte del programma di Biden per rinfrescargli la memoria. In modo molto poco professionale, Wallace ha poi rispecchiato le espressioni dell’ex vicepresidente, sorridendo quando questi sorrideva, ridendo quando questi rideva, tanto da far dire a Trump “I guess I’m debating you, not him”.

Ne consegue che, chi ha assistito al dibattito, si ricorderà soprattutto di come Trump si sia ritrovato a fronteggiare non solo il suo diretto concorrente, ma anche una stampa che gli è sempre palesemente ostile. L’azione combinata di Biden e Wallace ha così confermato uno dei grandi temi intorno al quale Trump coagula e fomenta la sua base. Non solo, nel combattere su più fronti, Trump si è dimostrato ancora una volta in grado di dominare a forza i suoi interlocutori. E questo è quello che voleva.

I CONTENUTI

Per quanto invece riguarda i contenuti, il dibattito si è distinto per una relativa povertà. Poco è stato detto sul futuro dell’economia, ancora meno su una politica estera che pure è da sempre uno dei capisaldi delle visioni presidenziali. Dal dibattito, i due candidati alla Casa Bianca sono usciti dimostrando un livello di coerenza nei confronti delle proprie piattaforme ideologiche, e del proprio elettorato, molto diverso, maggiore nel caso di Trump, minore nel caso di Biden. Anche a costo di vedersi rinnovare le ormai abituali accuse di connivenza con l’universo suprematista bianco, Trump ha evitato di esporsi a destra, nell’occasione articolando due delle tre frasi destinate a rimanere impresse nella memoria collettiva. La prima è quel “Stand back and stand by” rivolto a una finora poco conosciuta organizzazione che risponde al nome di Proud Boys. La seconda è la forte risposta offerta in merito alla sua decisione di terminare un particolare programma educativo federale volto, a suo avviso, a insegnare alla gente “to hate our country, and I’m not going to allow that to happen”. La terza frase è l’indimenticabile “I am the Democratic Party” con cui Biden ha rivendicato il pieno controllo del suo partito. Tuttavia, l’ex vicepresidente non ha smentito le voci secondo le quali una sua eventuale amministrazione, per la prima volta dal 1869, potrebbe impegnarsi per aumentare il numero dei giudici costituzionali, cosa questa invisa alla componente moderata del partito almeno quanto quel New Green Deal, cavalcato dalla sinistra progressista di Alexandria Ocasio-Cortez, che Biden, anche in questo caso pressato da Trump, si è ritrovato infine a respingere.

Da tutto questo si ricava che, tanto Biden quanto Trump, nel corso del dibattito, si sono impegnati soprattutto nel tentativo di compattare e stimolare le proprie basi, piuttosto che di aumentare il proprio bacino elettorale. In altre parole, nella consapevolezza della grande polarizzazione tipica di questo periodo, né l’uno né l’altro sta cercando di vincere le elezioni al centro, e in questo Biden sembra avere qualche difficoltà più di Trump perché più ampia e complessa è la coalizione che si ritrova a presiedere.

I TONI

Infine, per quanto forti le perplessità e impietosi i commenti dell’indomani, il tono che ha caratterizzato questo primo dibattito s’inserisce perfettamente in una tradizione vecchia di quasi 250 anni, nella quale simili scelte “retoriche” sono tutt’altro che inconsuete. Solo per fare qualche esempio, non si può non ricordare come persino Thomas Jefferson non esitò a far dipingere, e dipingere lui stesso, il presidente John Adams come “un uomo cieco, calvo, storpio, sdentato, un orribile ermafrodito il cui carattere non ha né la forza e la fermezza di un uomo, né la gentilezza e la sensibilità di una donna”. Qualche anno più tardi, nell’ambito dello scontro tra John Clay, John Quincy Adams e il presidente Andrew Jackson, la madre di quest’ultima divenne “una comune prostituta, portata in questo Paese dai soldati britannici”. Da parte sua, il presidente Jackson penso bene di spiegare a tutti che aveva solo due rimpianti, quello di “non aver sparato a Henry Clay e impiccato John C. Calhoun” (che pure era il suo vicepresidente). Gli anni Cinquanta dell’Ottocento furono anni ancora relativamente tranquilli, ma questo non impedì al deputato della North Carolina Kenneth Rayner di dare del “pimp” al presidente Franklin Pierce, un uomo per quale provava solo “disgusto, pietà e disprezzo”. Il livello raggiunto poi nei dibattiti che videro contrapposti Abraham Lincoln e Stephen Douglas fu così basso che oggi sarebbe assolutamente inaccettabile per qualsiasi pubblico, mentre nessun riguardo fu usato neppure nei confronti del generale, e in seguito presidente, Ulysses Grant, un uomo “senza cervello come la sua sella”. Il Novecento non impedì al presidente Theodore Roosevelt di insultare il presidente Woodrow Wilson in modo tanto fantasioso quanto enigmatico. Molto meno enigmatiche e più dirette le parole dedicate dal presidente Harry Truman a un Richard Nixon nel 1952 candidato alla vicepresidenza che a suo avviso era poco di più di “un inutile e bugiardo bastardo” i cui eventuali elettori “sarebbero andati all’inferno”.

In questo quadro, non si può non riconoscere come il dibattito di martedì scorso ha avuto un sapore d’altri tempi, quasi da frontiera, quando per arringare l’elettorato i candidati salivano su una sedia, un tavolo, un barile di birra, un tronco d’albero oppure, meglio ancora, sulla sella del proprio cavallo, e per attirare l’attenzione non lesinavano spacconerie, barzellette e, ovviamente, insulti.

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