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Il marketing spiegato benissimo. Parla Simone Ciaruffoli, fondatore di Burgez

Simone Ciaruffoli è il fondatore e CEO di Burgez, nonché fondatore e direttore creativo di Upper Beast Side, lo studio che cura la creatività e il marketing di Burgez.

Hai scritto “Marketing Luther King” durante il lockdown. Se non ci fosse stato l’avresti scritto ugualmente?

Sì, per più motivi: perché era in programma, perché mi interessava farlo, perché sarà l’apertura di corsi legati al marketing. Durante il lockdown ho scritto altri due libri e costituito 2 società. Ho cercato di usare in maniera positiva un momento così negativo.

Sin dalle prime pagine il tuo libro è sarcastico, irriverente e soprattutto trasversale. In uno dei capitoli iniziali sostieni che la Chiara Ferragni non è un influencer. Cosa intendi? 

Guardavo proprio in questi giorni un video di un influencer che promuove una carta di credito. Mi sono guardato altri video e recensioni di questo influencer che recensiva altre carte di credito.

Prima dei social media il testimonial legava in maniera esclusiva la sua immagine al brand. Oggi quasi mai accade ciò. Un’azienda si deve legare ad un brand, non ad un influencer. Un influencer a conti fatti è una vera e propria azienda che offre il suo prodotto, ovvero l’immagine, a chi lo ingaggia.

Un’azienda importante non dovrebbe, per quanto concerne la sua awarness, legarsi ad uno dei tanti influencer. Nell’immediato l’influencer può portarti followers in più, ma la gente non è affezionata alla persona che incarna la figura dell’influencer, quindi difficilmente si affezionerà al tuo marchio con la stessa intensità. Seguirà l’influencer e il prossimo brand di cui sarà testimonial.

Per lungo tempo i brand si sono dimenticati che gli influencer migliori sono i clienti felici.

Si parla troppo spesso di Brand e pochissimo di Lovemark. Puoi spiegarci la differenza?

Tutti sono Brand. Nike è un Brand come lo è Adidas, Samsung o Apple. Tra questi brand pochi sono anche lovemark, per esempio Apple e Nike lo sono. I lovemark sono quelli che fanno uno scalino in più e riescono a costruire un marchio talmente importante che qualsiasi persona vorrebbe far parte di quella cerchia.

Non diventi un lovemark comprando followers o fatturando milioni al giorni. Un lovemark è come l’amore, non si compra.

Quali sono gli ingredienti per creare un lovemark? 

Credo che siano gli stessi di un leader. Quindi il carisma, storytelling e storydoing. Se un brand riesce a costruire una propria storia importante e di valore diventa un lovemark anche senza un leader di riferimento. Non tutti i lovemark hanno avuto uno Steve Jobs.

In futuro avremo brand legati più alla quantità (vanity metrics) oppure alla qualità (clienti che si trasformano in ambassador del brand)? 

Partiamo dal cinema. Ad un certo punto è arrivata la democratizzazione del grande schermo. Tutti potevano girare un film. Quando c’era la pellicola dovevi avere una casa di produzione alle spalle, con l’avvento del digitale tutti possiamo fare un film.

Grazie al digitale c’è stata una effettiva crescita della qualità dei film? No. Tutti possono girare un film ma ciò non si traduce necessariamente in un aumento della qualità.

La crisi economica sta mettendo a dura prova soprattutto il settore retail ed HORECA a causa delle restrizioni anti covid e dello smart working. Prima o poi questa pandemia finirà. Secondo te il settore della ristorazione avrà capito la lezione che bisogna prima mangiare bene e poi internazionalizzare un format? Cosa ci sta insegnando questa pandemia? 

Credo che inizialmente ci sarà una moria di locali. Tutti quelli che avevano problemi prima della pandemia difficilmente sopravviveranno a questo periodo. Per chi invece andava molto bene questo periodo rappresenterà un momento di stop provvisorio per spostare i piani di espansione di un anno. Tutti gli altri, quelli che andavano “benino”, sono quelli più motivati a cercare di rimanere in piedi, a resistere in questi mesi difficili.

Finita la pandemia torneremo come prima. Milano vive nel cliché di essere una città europea ma ha solamente la parvenza di città europea. Diciamo che si è affacciata all’Europa ma è rimasta a metà. Si trova in un limbo.

Pensiamo allo skyline di New York, Londra o la Defence di Parigi. Da cosa sono accomunati? È tutto illuminato. Lo skyline di Milano non lo è. La città di notte deve essere come la città di giorno, non la puoi spegnere. Già questo è sintomatico, vorresti “essere” ma non ce la fai.

Sei uno dei rarissimi casi, se non l’unico, in cui sei founder dell’agenzia di comunicazione che gestisce il marketing della tua creatura Burgez. Altro che strategia tailor made. Le startup prenderanno sempre di più questa direzione? 

Personalmente ho fatto il processo inverso. La mia esperienza proviene dal marketing e comunicazione e solo successivamente ho messo in piedi un fast food. Passare dalla comunicazione alla ristorazione, e non viceversa, ti spiana un po’ la strada perché sei il “markettaro” della tua impresa: vedi (e spesso prevedi) tutti gli effetti di quello che stai facendo invece di demandare all’esterno le tue strategie aziendali.

Ricordiamoci che un ristoratore è sempre il committente di un marketing in outsourcing, sta a lui decidere se un post passa o meno. Il committente vale al 50%. In Italia non esiste però una cultura dell’immagine “moderna” come quella degli anglosassoni. L’imprenditore italiano è rimasto rinascimentale. Se non abbiamo un grande marketing è perché non ci sono committenti con lo sguardo aperto al mondo.

 

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