L’Italia è, sotto molti punti di vista, un Paese ideale per cellule terroristiche che commettono i loro delitti nel resto d’Europa. Per questo occorre seguire con attenzione e determinazione gli indizi di cellule e basi terroristiche impiantate nel nostro territorio. L’opinione del prof. Giuseppe Pennisi
La campana suona anche per noi, come ha scritto Aldo Cazzullo sul Corriere della Sera del 30 ottobre. Brahim Aoussaoui, il terrorista di Nizza, era sbarcato dalla Tunisia a Lampedusa ma aveva fatto perdere le tracce di sé stesso, subito dopo la quarantena, nel mare della Puglia proprio di fronte a Bari. Nel 2017, uno dei fratelli Anachi, autori di un atto terrorista a Marsiglia (dove vennero uccise due donne), venne arrestato a Taranto (gli altri in Tunisia e a Chiasso dove stavano riparando in Svizzera.
Aveva vissuto indisturbato per anni a Latina. Anche, Anis Amri (attentatore al mercatino di Natale nel 2018), ucciso dalle forze dell’odine a Sesto San Giovanni, aveva vissuto a Latina e fatto frequenti viaggi in Puglia. Nel 2018, venne scoperta e neutralizzata una cellula fondamentalista che aveva il suo “stato maggiore” tra Latina e Caserta.
Siamo certi che non ci sia una pista italiana che porti all’Adriatico? L’omicidio di Pamela Mastropietro ha fatto individuare una centrale di spaccio della droga, controllata da nigeriani, a Macerata. Spaccio e terrorismo si coniugano spesso insieme perché il primo serve a finanziare il secondo. Ed è una pista che le autorità ed i servizi preposti dovrebbero seguire.
L’Italia è, sotto molti punti di vista, un Paese ideale per cellule terroristiche che commettono i loro delitti nel resto d’Europa. L’immigrazione è un fenomeno recente. Si pensi che nel 1979-80, in anno sabbatico dalla Banca mondiale, feci, nell’ambito di uno studio dell’Istituto Affari Internazionali (Iai)- una ricerca empirica delle migrazioni tra Paesi a basso reddito e Paesi ad alto reddito nel Medio Oriente e nel Golfo Persico: i risultati confermavano che senza regolamentazione l’immigrazione diventa caotica e senza cessa.
Gli editori italiani a cui mi ero rivolto per la pubblicazione – l’Iai ne pubblicò un sunto nel rapporto completo della ricerca- mi dissero che si trattava di un tema “futuribile”; alla fine venne pubblicato in inglese da un editore di Amburgo. Quaranta anni fa, quindi, il problema non esisteva.
Inoltre, dopo l’ubriacatura tra il 1936 ed il 1943, gli italiani che lo avevano contratto si sono liberati del virus razzista. In Italia, invece, c’è sempre stata un’atmosfera multi o pluri culturale anche a ragione della tarda unificazione del Paese e del radicamento di culture regionali.
Non si è mai pensato di vietare il velo a ragione della laicità dello Stato e le differenze di religione sono generalmente accettate. Alla metà degli anni Ottanta, a Bologna i miei studenti africani le cui famiglie erano benestanti e risiedevano a Londra, mi dicevano che si trovavano molto meglio nel capoluogo emiliano perché là il colore della pelle non rilevava, mentre nella capitale del Regno Unito pesava. E come!
A mio avviso, dagli ultimi elementi di cronaca, emergono due conclusioni:
a) Seguire con attenzione e determinazione gli indizi anche piccoli di cellule e basi terroristiche impiantate nel nostro territorio per commettere delitti in Paesi che, a torto od a ragione, vengono considerati ostili alla loro cultura o religione.
b) Applicare con grande rigore la normativa sull’immigrazione che, se ben ricordo, si basa ancora sulla legge del 30 luglio 2002 chiamata Bossi-Fini. La normativa apre le porte a chi ha un contratto di lavoro. Ciò implica potenziare Ambasciate e Consolati d’Italia al fine di svolgere il compito di fare incontrare domanda e offerta di lavoro e fare attraccare nei nostri porti unicamente alle navi che battono bandiera italiana, nonché (di conseguenza) rinviare i clandestini, anche coloro non bene accetti nel Paese di provenienza.