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Perché Twitter e Facebook spaventano i politici negli Usa (e non solo). Scrive il prof. Monti

Le Big Tech sono parte attiva delle competizioni elettorali e non sono soggette a regole e controlli, tanto che possono cambiare anche diametralmente le proprie decisioni senza subire alcuna conseguenza. L’analisi di Andrea Monti, professore incaricato di Diritto dell’Ordine e della sicurezza pubblica, Università di Chieti-Pescara

La decisione presa da Facebook e Twitter di bloccare un controverso articolo pubblicato il 14 ottobre 2020 dal New York Post su Robert Hunter Biden, figlio del candidato democratico alla presidenza degli Stati Uniti Joe Biden, ha provocato un terremoto politico. Il Partito repubblicano, infatti, ha usato questo episodio per denunciare un’alterazione diretta della campagna elettorale ed rinforzare la narrativa secondo la quale esisterebbe un pregiudizio delle Big Tech contro questa parte politica; percezione, questa, ulteriormente rinforzata dal dietrofront di Twitter, che dopo qualche giorno ha cambiato idea —o meglio, policy— e ha concesso la libera circolazione del pezzo.

Parallelamente, non sono mancati i commenti di chi ha visto in questa vicenda l’ennesima dimostrazione del potere che le Big Tech sono in grado di esercitare su ogni ambito della vita privata dei cittadini e pubblica, di politici e istituzioni. Non solo, dunque, tentativi occulti di manovrare il consenso elettorale da parte di spin doctor come nel caso Cambrige Analytica, ma anche intervento diretto sulla circolazione delle informazioni, a costo di sacrificare la libertà di stampa.

Twitter ha violato la legge?

A ben guardare, tuttavia, il comportamento di Twitter, Facebook e delle altre piattaforme di social networking non è illegale, nuovo, né tantomeno scandaloso.

Almeno apparentemente. Come ha rilevato Kaitlin Tiffany commentando la vicenda su The Atlantic, “Per essere chiari, Twitter è un’azienda, non un governo, e come tale ha tutto il diritto di ‘censurare’ ciò che vuole. Non si discute sul fatto che la piattaforma sia legalmente autorizzata a bloccare qualsiasi URL diritto suo gradimento, e spesso lo fa: ha un incentivo e l’obbligo di proteggere i suoi utenti da malware, spam, contenuti illegali e così via. Tutte le principali piattaforme sociali fanno bloccano una certa quantità di link”.

Inoltre, a meno di casi clamorosi come quello di Napalm Girl, la fotografia di una vittima della guerra del Vietnam prima qualificata come pedopornografica da Fecebook e poi “riabilitata”, quasi nessuno ha protestato per la routinaria attività di “controllo dei contenuti” esercitata nei confronti di anonimi utenti, che nulla possono contro i giganti tecnologici e che devono subire, a torto o a ragione, la demonetizzazione o la cancellazione di ciò che pubblicano.

Big Tech e media tradizionali

A questo si potrebbe aggiungere anche la considerazione che i media tradizionali politicamente schierati non fanno nulla di diverso, quando decidono di non diffondere una notizia, o di farlo in modo strumentale. Un esempio è fornito proprio dal caso di cui parla questo articolo. Nel dare conto della retromarcia di Twitter sulla diffusione dell’articolo incriminato, il New York Times (sotto)titola: “Twitter cambia rotta dopo le affermazioni dei repubblicani di interferenza elettorale. Aveva bloccato un infondato articolo del New York Post sui Biden, ma lo scorso venerdì ha dichiarato che avrebbe consentito la condivisione di contenuti analoghi”. Come è facile notare, nella notizia principale (Twitter cambia idea) è innestato un giudizio di valore sull’articolo del New York Post, qualificato come “privo di elementi”. A stretto rigore questo commento potrebbe essere considerato non rilevante rispetto al merito della vicenda. Ma il fatto che sia stato aggiunto evidenzia la volontà della testata di mandare un messaggio ai lettori del tipo: “Twitter avrà anche sbagliato, ma la notizia su Biden è infondata”.

Dunque, perché nel caso di stampa e televisione la diffusa pratica della distorsione o soppressione ad usum delphini di informazioni e notizie non genera più scandalo, mentre quando ci sono di mezzo le piattaforme di social networking le reazioni sono parecchio diverse?

Perché le Big Tech spaventano i politici

La risposta è abbastanza complessa e coinvolge, innanzi tutto, i meccanismi di formazione del consenso che hanno manifestato tutta la loro efficacia nel fenomeno delle fake news, favorito dalla perdita di centralità dell’informazione tradizionale. Le opinioni individuali non sono più eterodeterminate dalle talking head televisive o dalle “penne” dei giornali ma da dinamiche tribali che innescano all’interno di gruppi più o meno numerosi di “simili” un confirmation bias. A questo, aggiungiamo che, a differenza dei media tradizionali anche se migrati online, messaggi o story generano passaparola praticamente in tempo reale all’interno dei vari gruppi sociali. La risultante di questi due vettori è che le coscienze (almeno certe coscienze) possono essere manipolate molto più facilmente da un tweet che da un articolo di giornale raffinatamente disinformativo.

In questo senso, dunque, le Big Tech hanno un potere molto concreto di alterazione dell’esercizio dei diritti politici e non solo della libertà di espressione o di pensiero perché sono in grado di ottenere risultati sostanzialmente immediati, pur non essendo testate giornalistiche o componenti del mondo dell’informazione professionale. Da semplici “fornitori di servizio”, infatti, le Big Tech non producono contenuti e non ne favoriscono la circolazione perché tutto è lasciato nella disponibilità e discrezionalità dell’utente. Almeno così ripetono da sempre, ogni volta che qualche tribunale o qualche istituzione cerca di attribuire loro delle responsabilità per quanto circola grazie alle loro piattaforme. Fatti come quello del blocco dell’articolo del New York Post, tuttavia, dimostrano che le cose stanno diversamente.

Le Big Tech sono parte attiva delle competizioni elettorali e non sono soggette a regole e controlli, tanto che possono cambiare anche diametralmente le proprie decisioni senza subire alcuna conseguenza. E possono farlo molto più velocemente di quanto ci metterebbe un giudice a esaminare e giudicare il loro comportamento.

Ciò che spaventa i politici, dunque, è la perdita di controllo sull’opinione pubblica causata da soggetti che gestiscono piattaforme con l’unica finalità (peraltro più che legittima) di produrre utili e che, dunque, non hanno un’agenda politica comune a quella di chi è o si candida ad essere un rappresentante del popolo (o ha interesse ad azzoppare i propri concorrenti).

Conclusioni

Il rapporto fra politica e Big Tech è un altro elemento del complesso tema che va sotto il nome di “ordine pubblico tecnologico” e che vede le multinazionali dell’information technology non più come “semplici” fornitori di hardware e software per la pubblica amministrazione. Esse sono diventate soggetti che, prima solo di fatto e ora anche di diritto, esercitano come in un duumvirato dei poteri concreti di controllo sulla vita politica di un Paese.

Quello della potestà condivisa fra soggetti (stranieri) privati e istituzioni pubbliche, accentuato dai mutamenti negli scenari geopolitici e dagli effetti ancora incalcolabili della pandemia, è il tema dei mesi e degli anni a venire.


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