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I tre punti da chiarire per sgombrare il tavolo del dibattito sullo smart working

Nell’estate del 2019 uno dei punti maggiormente qualificanti dell’agenda di Governo in materia di pubblica amministrazione, incentrato sulla verifica dell’osservanza dell’orario di lavoro, era quello relativo alla messa in opera di “sistemi di verifica biometrica dell’identità e di videosorveglianza degli accessi” (art. 2, co. 1, l. 19 giugno 2019, n. 56): l’introduzione delle impronte digitali nell’accesso agli uffici, cavallo di battaglia dell’allora Ministra Bongiorno, era il naturale punto di approdo di una tradizionale concezione parafordista dell’attività amministrativa, fortemente proceduralizzata e incastonata, nell’immaginario collettivo, nel totem della presenza alla scrivania dell’anonimo travet. Nel giro di pochi mesi, l’impatto della pandemia da coronavirus ha drasticamente stravolto ogni usuale riferimento del discorso sul lavoro pubblico che, al netto dei tanti problemi che lo affliggono, appare ormai inestricabilmente legato all’affermarsi di nuove forme di organizzazione e gestione. Lo sconquasso in termini organizzativi interni provocato dallo smart working emergenziale, introdotto dal Governo nei mesi della cosiddetta prima ondata dell’epidemia, ha favorito l’affaccio di una vera e propria rivoluzione copernicana in materia di lavoro nella macchina pubblica che, tuttavia, nel suo incedere impetuoso, sconta alcuni vizi di fondo nel discorso pubblico in corso, dei quali occorre acquisire piena consapevolezza se si desidera contribuire a imprimere un cambiamento apprezzabile nella cultura interna delle nostre amministrazioni pubbliche, discernendo opportunità, ostacoli e possibili esternalità negative.

Il primo inciampo investe la facile confusione che ancora sopravvive fra telelavoro e lavoro agile, sebbene nettamente distinti dal punto di vista pratico e concettuale. È bene, allora, ribadire che il telelavoro implica il trasferimento, più o meno permanente, dell’attività quotidiana fra le mura domestiche grazie alle tecnologie informatiche ed è generalmente accompagnato dalla rilevazione della presenza al computer secondo fasce orarie predeterminate, mentre il lavoro agile decostruisce non solo l’elemento spaziale (il lavoratore può operare in qualsiasi luogo, non solamente a casa) ma anche quello temporale, permettendo una gestione del proprio orario, pur garantendo il rispetto del limite massimo di ore lavorative giornaliere e settimanali stabilito dalla legge e dai contratti collettivi. Una forma matura di smart working, in estrema sintesi, prevede un equilibrato mix di presenza/remoto che, tenendo fermo l’obiettivo di conciliazione dei tempi di vita privata e professionale, contribuisca a promuovere una cultura dell’organizzazione del lavoro per obiettivi e risultati con marcata responsabilizzazione del lavoratore rispetto al suo apporto lavorativo. Si tratta, come è stato fatto notare, di una potente leva di cambiamento che, se opportunamente utilizzata, può stimolare processi profondi i cui esiti, in termini di riorganizzazione lavorativa e financo sociale, sono ancora poco visibili: orientamento al risultato dell’attività amministrativa, riconquista di senso da parte dei lavoratori, ripresa di spazi per le esigenze familiari, di cura e del tempo libero, formidabile spinta trasformativa sugli stili di leadership della dirigenza che non può non rimettersi in gioco per coordinare con efficacia le persone indipendentemente dalla loro presenza fisica alla scrivania.

Il secondo aspetto di cui tener conto è che il dibattito in corso è ancora fortemente viziato dalla pandemia. Si è parlato di lavoro agile d’emergenza introdotto, per il settore pubblico come per quello privato, allo scopo di limitare il contatto interpersonale e, conseguentemente, il diffondersi del contagio. Lo svolgimento dell’attività lavorativa dipendente si è dunque forzatamente svolto, per mesi, da casa, spesso in mancanza di adeguate dotazioni informatiche, scontando talvolta inevitabili disfunzioni ma continuando, tuttavia, a far marciare l’attività anche in un periodo difficilissimo per il Paese. Ciò nonostante, permane, in tante parti del dibattito pubblico, una spinta a richiedere a “tornare negli uffici” quale soluzione non solo alla presunta piena ripresa delle attività, ma anche alla rianimazione dei centri urbani, che si teme si riducano a scheletri abbandonati. Non è, peraltro, improbabile vedere in controluce, a fronte di reazioni simili, una certa qual voglia di restaurazione dell’ordine naturale delle cose dettata dal timore di mutamenti troppo repentini dello status quo che mettano a repentaglio equilibri consolidati: un punto che meriterebbe un’analisi maggiormente approfondita. Quali che siano le motivazioni, ecco, puntuale, il susseguirsi di posizioni oltranziste di non pochi protagonisti della politica e di opinionisti dell’informazione televisiva e della carta stampata che propalano lo scandalo degli smart worker a casa a stipendio pieno, causa dell’impoverimento di ristoranti ed esercizi commerciali e della desertificazione delle città, proprio quando, per il settore pubblico, è stato previsto, a partire dal 2021, un regime di lavoro agile che interessi almeno il 60% del personale che sia adibito ad attività remotizzabili Le principali conseguenze di una simile, malconcia propaganda sono due: ignorare scientemente e colpevolmente le enormi potenzialità di cambiamento sociale, economico e ambientale che possono accompagnare il mutar pelle all’organizzazione tradizionale del lavoro e favorire irresponsabilmente tensioni sociali fra lavoratori dipendenti e non dipendenti.

Il terzo elemento, in modo strettamente correlato al precedente, riguarda l’oggettivo emergere di forti diseguaglianze che la crisi economica, terribile prodotto dell’emergenza sanitaria ed epidemiologica, sta portando alla luce. Una pletora di attività – basti pensare al settore del turismo e della ristorazione – ha subito e subisce pesantissime ripercussioni che colpiscono i lavoratori e investono le famiglie. L’assegnazione del Premio Nobel al World Food Programme delle Nazioni Unite – un riconoscimento ai “burocrati dell’ONU”, potrebbe osservarsi – segna proprio il tentativo di porre un argine alle devastanti conseguenze a danno dei paesi più poveri, come ha ben argomentato Vandana Shiva in una sua recente intervista. Attenzione, tuttavia, al salto logico: è la pandemia a causare queste drammatiche diseguaglianze, non certo coloro che possono usufruire del regime di lavoro agile in quanto dipendenti, privati o pubblici. La tempesta perfetta che ha travolto tanti lavoratori, in primis gli autonomi, è un dramma per il Paese intero dato che, ove non si riuscisse a porre rimedio allo tsunami in corso, nessuno ne uscirà in piedi, ed è obiettivo primario della politica mettere in campo le opportune misure di contrasto al possibile disastro. Metter contro chi ha potuto continuare a lavorare, garantendo continuità e usufruendo del lavoro agile in mezzo a tante oggettive difficoltà, e chi, a causa della crisi, ha visto praticamente azzerato il proprio volume di attività, è, dunque, un’intollerabile, ipocrita scelleratezza. Suggerire che i lavoratori dipendenti, e in particolare i dipendenti pubblici, abbiano “voglia di lockdown” è segno del profondo disconoscimento del valore del tessuto condiviso proprio di una comunità sociale e dello stigma avverso una categoria di persone e atteggiamento che merita la più netta disapprovazione.

Pretendere chiarezza e sgombrare il campo da equivoci e malintesi sono passaggi essenziali a che si possa sviluppare un dibattito serio e di lungo respiro su nuove forme organizzazioni del lavoro, che lo smart working può aiutare a definire e, con uno sforzo di visione, immaginare per il futuro. Servono, soprattutto, ad affrontare senza riserve le criticità e le difficoltà che il processo di trasformazione può portare con sé: i mesi passati di lavoro agile nel settore pubblico hanno generato speranze ed attese ma, allo stesso tempo, hanno messo a nudo problemi profondi e portato alla luce non poche resistenze, rendendo evidente che la trasformazione è efficiente in quanto comporti vantaggi per l’organizzazione, per i lavoratori e, soprattutto, per i cittadini. Riportando tutti con i piedi per terra, peraltro, nel futuro post-pandemia il lavoro in presenza (per le forze dell’ordine, per il settore sanitario e per il sistema integrato di educazione e di istruzione) non potrà che riassumere la sua indispensabile preponderanza, limitando fortemente, com’è stato rilevato, il numero dei lavoratori agili pubblici. Si prospettano, in realtà, cambiamenti che innerveranno la dimensione planetaria del lavoro e che, paradossalmente, potranno avere rilevanza e ricadute negative limitate per il settore pubblico, i cui obiettivi e la cui ragion d’essere è correlata a funzioni statali in gran parte indispensabili e irrinunciabili: alzando lo sguardo, va raccolto il monito lanciato da Miguel Gotor, per il quale trasformazioni incontrollate possono aumentare “la frustrazione dell’emarginato, la cui posizione sociale è ormai così atomizzata e disarticolata da non essere in grado di organizzare una reazione”, in un clima di progressiva e definitiva atomizzazione del valore lavoro che potrebbe far crescere le diseguaglianze e radicalizzare i processi di disarticolazione sociale. Entrano in gioco dimensioni trasformative lunghe e l’opportunità – la necessità – di ripensare e rivedere più di un aspetto di un sistema socio-economico che non da ora viene messo in discussione. Una partita complessa, in cui la politica non può far mancare la propria voce, in primo luogo per evitare di alimentare irresponsabili tensioni sociali.



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