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Vienna, un salto di qualità del terrorismo islamista?

Di Stefano Dambruoso e Francesco Conti

L’unica novità dell’attentato di Vienna è l’uso di una grossa arma da fuoco. L’attacco riaccende i riflettori sulle minacce del jihadismo balcanico. L’analisi di Stefano Dambruoso, magistrato esperto di terrorismo internazionale, e Francesco Conti, master counter terrorism King’s College London

Lo scorso lunedì 2 novembre, il centro della capitale austriaca, pieno di giovani nei ristoranti e nei locali intenti a “festeggiare” le ultime ore prima del lockdown nazionale per Covid-19, è stato scosso da un attentato di matrice jihadista, a pochi giorni dalle violenze compiute a Nizza. Un “lupo solitario” con armi da fuoco e coltello ha seminato il panico nel primo distretto, uccidendo quattro persone e ferendone una ventina, prima di essere rapidamente neutralizzato da operativi del Wega, l’unità Swat della città di Vienna. L’autore dell’attacco, il ventenne Kujtim Fejzullai, con doppia cittadinanza austriaca e macedone, era già noto all’agenzia di intelligence interna Bvt per la sua appartenenza a un circolo di simpatizzanti jihadisti che comprendeva anche militanti provenienti da Germania e Svizzera. La stessa intelligence sapeva dell’esistenza di moschee radicali nei sobborghi della capitale, legate a personaggi andati a combattere per lo Stato Islamico. Sarebbe stata proprio l’esitazione delle autorità antiterrorismo austriache nell’arrestare i soggetti legati a Fejzullai e nel chiudere queste moschee (decisione attuata solo a seguito dell’attacco) a causare le dimissioni del direttore dell’intelligence viennese.

Il profilo dell’attentatore di Vienna non è quindi molto diverso da quello di altri terroristi che hanno realizzato gravi attentati in Europa. Come per esempio i fratelli Kouachi (Chérif e Said), autori dell’attacco alla sede del giornale satirico Charlie Hebdo del gennaio 2015. Infatti, dopo le iniziali titubanze investigative si è potuto poi inquadrare l’attentato viennese fra quelli aventi le stesse caratteristiche di altri già realizzati in Europa negli ultimi mesi. Nessun salto di qualità, dunque, per quanto attiene alla natura del pericolo jihadista rispetto a quanto accaduto solo 15 giorni prima a Parigi o Nizza con le decapitazioni per le strade francesi. Nessun gruppo basato all’estero ha commissionato, preparandolo, l’attentato in Austria. L’unica vera novità è stata l’uso di una grossa arma da fuoco usata in zone di guerra nella disponibilità del “lupo solitario”. In Francia dal 2015 in poi, anno degli attentati, si è molto accentuato il controllo sulla circolazione e possesso di armi da guerra. Anche per questo gli ultimi attentati in Francia sono stati commessi con coltelli e accette.

Sia l’austriaco Kujtim Fejzullai che il francese Chérif Kouachi hanno storie comparabili. Erano stati infatti precedentemente condannati per aver tentato di partire verso i luoghi del Califfato e diventare foreign fighters: il primo voleva raggiungere la Siria per diventare un miliziano dell’Isis mentre il secondo, nel lontano 2005, aveva come destinazione programmata lo stesso Paese, dal quale avrebbe poi dovuto spostarsi in Iraq e unirsi al gruppo locale di al-Qaeda, allora guidato da quell’Abu Musab al-Zarqawi considerato da molti analisti il “padre spirituale” dello Stato Islamico. Inoltre, i due terroristi sono risultati essere stati legati a noti reclutatori del sottobosco jihadista europeo, due “cattivi maestri”: l’attentatore di Vienna era infatti un seguace del predicatore radicale Mirsad Omerovic, condannato a 20 anni dalla giustizia austriaca per la sua affiliazione all’Isis; invece Chérif Kouachi era entrato in contatto con il qaedista algerino Djamel Beghal mentre stava scontando la sua condanna per terrorismo a metà degli anni 2000. Lo stesso Beghal divenne il mentore anche di Amedy Coulibaly, l’autore dell’attacco al supermercato kosher di Parigi nelle ore successive a quello di Charlie Hebdo.

L’Austria, nonostante sia stata sino a ieri considerata un Paese meno a rischio attentati dagli esperti di terrorismo rispetto ad altri come Belgio, Francia e Regno Unito, ha “regalato” comunque fra i 200 e i 300 suoi cittadini all’esercito del Califfato, numeri che, rapportati a una popolazione di poco inferiore ai nove milioni, ne ha fatto uno dei Paesi “più fertili” per i seguaci dello Stato Islamico. Per cogliere l’intensità del fenomeno si consideri che l’Italia, Paese con più 60 milioni di abitanti, ha visto partire fra i militanti jihadisti basati sul territorio circa 150 foreign fighter. Uno dei principali nuclei di cittadini austriaci che si sono uniti all’Isis in Siria ed Iraq è quello proveniente dell’area balcanica. Anche l’Italia ha visto un numero considerevole di foreign fighter originari della ex Jugoslavia, nonostante il nostro Paese abbia una prevalente maggioranza di musulmani provenienti dal Maghreb. Una conferma che l’area balcanica sia ancora oggi una zona importante per l’estremismo islamista in Europa, a ormai più di diciotto anni dall’arrivo sulla scena dei mujahideen giunti per supportare i propri fratelli religiosi nel conflitto in Bosnia ed Erzegovina. Il terrorismo islamista si è andato così ad aggiungere ad altre frange del crimine organizzato locale quasi oramai strutturali nei Balcani, con alcuni governi molto vicini a grandi trafficanti di armi, prostituzione, sigarette e droga. Sebbene sia stato accertato che Fejzullai si sia procurato il fucile in Slovacchia, la vicinanza dell’Austria alla regione balcanica ne fa un Paese dove possono facilmente confluire crimine ed estremismo: una miscela esplosiva da monitorare con grande attenzione.

L’Italia è consapevole dell’importanza strategica dei Balcani come territorio che ospita e supporta gruppi terroristici. Infatti, nella Relazione sulla politica dell’informazione sulla sicurezza 2018 si è evidenziato come la regione presenti “hub logistici e di reclutamento per gruppi jihadisti, nonché di circuiti estremisti con ramificazioni e contatti in molti contesti europei, incluso il nostro”. Per questo forze di polizia e magistrature hanno rafforzato la cooperazione con le controparti balcaniche al fine di aumentare la sicurezza nella regione e, di riflesso, anche nel nostro Paese. Inoltre, personale dell’Arma dei Carabinieri inquadrato nella Multinational Specialized Unit (Msu) è presente in Kosovo con la missione Eulex finanziata dell’Unione europea, che ha fra i suoi compiti anche quello di aiutare la polizia kosovara a contrastare il terrorismo nel Paese. I funzionari di Eulex lavorano molto anche per raccogliere intelligence investigativa da utilizzare a casa nostra.

Per quanto riguarda il tema della deradicalizzazione, l’episodio di Vienna conferma che non tutti i soggetti sono recuperabili. Kujtim Fejzullai era passato attraverso il vaglio del Bundesweites Netzwerk Extremismus-prävention und Deradikalisierung (Bned), la struttura federale austriaca che si occupa della strategia sulla prevenzione e sul contrasto all’estremismo violento. Come nel caso di Usman Khan, autore dell’attentato del London Bridge del novembre 2019, soggetti ancora legati al jihadismo possono fingere un loro ravvedimento iniziando programmi di deradicalizzazione per ottenere vantaggi materiali, e soprattutto la libertà. Alla luce di esperienze fallimentari come quelle appena richiamate gli esperti europei nell’approntare programmi di deradicalizzazione stanno sempre più introducendo fasi che comportano costanti valutazioni e risk-assessment con la consapevolezza che in caso di valutazione negativa, il rilascio può essere solo subordinato a un monitoraggio costante di intelligence e law enforcement, per evitare che episodi come quello di Londra e Vienna si ripetano. Da quasi un decennio molti finanziamenti di Bruxelles, nella lotta al terrorismo islamista, sono rivolti a supportare programmi di contrasto alla radicalizzazione: si tratta di milioni raccolti dalle tasse che ciascun cittadino europeo ogni anno paga per far funzionare prevenzione e repressione del terrorismo islamista. Risultati importanti sono stati realizzati e continuano sempre più a crescere. Le singole esperienze fallimentari, come quelle sopra richiamate, di sparuti jihadisti che hanno tradito il patto con le istituzioni da cui avevano ricevuto fiducia e supporti per recuperare una vivibilità normale per loro e per le loro famiglie, fanno parte inevitabile di un percorso di prevenzione che invece, complessivamente sta funzionando, garantendo maggiore sicurezza all’intero continente. Con maggiore coraggio politico i governi europei dovranno promuovere politiche che garantiscano il lavoro a chi è stato in guerra combattendo per il Califfato: solo la certezza del lavoro garantirà la fiducia per i jihadisti avviati a un percorso di deradicalizzazione a proseguire convinti e senza più finzioni o tentennamenti. Facile a dirsi, più difficile da realizzare: soprattutto dove governano partiti che diffondono la necessità di contrastare immigrazione e terrorismo islamista, fenomeni assolutamente diversi ma troppo spesso strumentalmente sovrapposti. In Italia l’assenza di una legge sul contrasto alla radicalizzazione rappresenta un’amara conferma dell’inescusabile distrazione legislativa. Solo grazie al quotidiano impegno dell’intelligence e delle forze di polizia la negligenza del legislatore ha potuto trovare sino a oggi un’efficace compensazione utile per la sicurezza dei cittadini.

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