Silvio Berlusconi continua ad essere una personalità fortemente divisiva, e la forza destrutturante di un suo “ritorno in gioco” è destinata a creare problemi a sinistra non meno che a destra. La divisività del suo nome è troppo profonda e radicata, fosse pure ormai solo al livello inconscio, per pensare che la possa cancellare totalmente dall’oggi al domani
Non c’è dubbio che il dialogo iniziato o cercato fra Forza Italia, da una parte, e il governo e la maggioranza, dall’altra, abbia creato un minimo di movimento in un sistema politico sostanzialmente in stallo. Sarebbe però un errore, a mio avviso, fermarsi solo alle reazioni, che sono apparse di ripicca, di Matteo Salvini; o addirittura pensare che stia maturando una spaccatura seria in seno al centrodestra.
Silvio Berlusconi continua ad essere una personalità fortemente divisiva, e la forza destrutturante di un suo “ritorno in gioco” è destinata a creare problemi a sinistra non meno che a destra. Alessandro Di Battista ha già parlato, con dubbio gusto, di “letame”, e Luigi di Maio ha pubblicamente rallentato sull’entente cordial, anche se poi intensifica incontri più o meno “segreti” con esponenti vicini al Cavaliere: da Gianni Letta alla presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati. D’altro canto, almeno che non si voglia masochisticamente mettere sotto stress un governo la cui tenuta sta proprio nell’equilibrio precario su cui si regge, Berlusconi non sarà coinvolto più di tanto in nessuna delle scelte cruciali che, fra manovra e piani per usufruire del Recovery Fund, l’esecutivo si appresta ad affrontare. Ma allora perché il leader di Forza Italia si è mosso, da solo o con i suoi uomini più fidati, per creare lo scompiglio di questi giorni? Certamente per uscire dallo stallo e, riconquistando una certa centralità, provare a mettere un po’ in movimento il tavolo. Ma anche forse perché ha capito che si sono aperte le danze per l’obiettivo da tutti più ambito: la Presidenza della Repubblica.
Certo, due anni “son lunghi da passare”, e tutto può succedere da qui al voto congiunto di Camera Senato e Regioni per dare un successore a Sergio Mattarella. Tuttavia è un po’ a tutti chiaro che, con gli anni, il ruolo del Capo dello Stato è divenuto sempre più centrale nel nostro ordinamento, in un sistema politico per altri aspetti impaludatosi quale è quello italiano. Se il centrodestra vuole aspirare a governare in futuro, deve muoversi lungo una doppia direttrice: tessere rapporti credibili in Europa; avere un deep state, e in primo luogo un Presidente della Repubblica, che non gli sia per principio ostile. Se, come è più che probabile, questa legislatura continuerà fino al suo termine naturale, è con questo Parlamento, con i rapporti di forza attuali, che bisogna fare i conti. E quindi, in primo luogo, con la sproporzionata rappresentanza dei Cinque Stelle rispetto alle altre forze politiche.
Luigi Di Maio, che ha appena “riconquistato” in qualche modo il suo partito, lo ha capito. E il Cavaliere è stato il primo a capirlo fra le forze di opposizione, finora impegnate soprattutto a dare una improbabile, e in effetti fallita, “spallata” al governo di Giuseppe Conte. Certo, Salvini ha fatto presente qualche giorno fa, in tono polemico, di conservare buoni rapporti con un terzo dei parlamentari grillini e che ciò gli tornerà utile proprio in vista dell’elezione per il Quirinale. Per quanto molti di quei parlamentari correranno il rischio di non essere più rieletti, e teoricamente (molto teoricamente) potrebbero rendersi disponibili ad altre avventure, la via intrapresa dal Cavaliere per mettere un cappello sulla scelta del nuovo Presidente, mi sembra più concreta e realistica. Anche se altrettanto non è pensare che sia proprio lui, come egli in cuor suo sogna, il prescelto.
La divisività del suo nome di cui dicevamo è troppo profonda e radicata, fosse pure ormai solo al livello inconscio, per pensare che la possa cancellare totalmente dall’oggi al domani.