Queste elezioni hanno confermato quella frattura del Paese che era iniziata a palesarsi già quattro anni fa con la vittoria a sorpresa di Donald Trump. La bussola (stelle e strisce) di Corrado Ocone
Un tempo si diceva che quello che succedeva in America dopo un po’ succedeva in tutto il mondo. Oggi, questa affermazione va alquanto temperata: sia perché, pur predominando ancora gli Stati Uniti nella maggioranza dei settori strategici, il mondo è diventato più plurale; sia perché soprattutto il way of life americano non è più visto in ogni parte del globo con ammirazione e spirito di emulazione.
D’altronde, l’America stessa sembra non volersi più bene, avendo perso fede nella sua identità di sempre con un processo destrutturante che è iniziato a sinistra, nelle proteste e nei campus prima e nelle casematte della cultura-informazione poi, ed è continuato poi a destra, con l’assertività di movimenti tipo il Tea Party prima e con il ciclone trumpiano poi. Come mai era avvenuto da quelle parti, il conflitto politico, tradizionalmente fondato sui parametri dell’economia (non intesa però in senso classista), si è trasformato in un conflitto anche culturale, e quindi sociale, geografico, identitario.
Queste elezioni, con la risicata vittoria di Joe Biden e con gli strascichi giudiziari che ne seguiranno, hanno confermato quella frattura del Paese che era iniziata a palesarsi già quattro anni fa con la vittoria a sorpresa di Donald Trump. Però, pur temperata, quella affermazione di partenza un significato ce l’ha in un senso politico-storico: Biden alla Casa Bianca forse sancisce la fine della forza propulsiva, di quella stagione in cui un po’ ovunque si sono affermati movimenti detti con termine di dubbia consistenza teorica “sovranisti”.
Il voto sulla Brexit, le elezioni italiane del 2018, la vittoria di Bolsonaro in Brasile, sono tutte tappe successive di una stagione che è durata, a ben vedere, il tempo di un battito d’ali. Oggi i fenomeni politici sorgono e si consumano rapidamente, ma non bisogna mai dimenticare che essi sono indicatori sociali infallibili: alla loro base ci sono sempre bisogni concreti insoddisfatti che, anche se arginati, lavorano sottotraccia per riapparire poi in seguito anche in forme più radicali.
Che la nuova amministrazione abbia la capacità di comprenderlo, lo dubito fortemente. Biden è infatti esponente di quel gruppo di potere facente capo ai Clinton e agli Obama che è tanto lontano dal mondo dei forgetten man dell’America profonda quanto dalle vecchie élite del tempo antico che con chi non ne faceva parte usava le armi della politica e del compromesso che facevano sentire tutti appartenenti a una “casa comune”.
Essa agiva con moderazione ed era lungi dall’attuare politiche fortemente ideologiche forzando la mano, come fa la nuova classe dominante con malcelato compiacimento da “superiorità”, caso mai dietro l’ipocrisia delle buone maniere. L’impressione è che, con l’elezione di Biden, quella frattura non si ricomporrà in breve tempo. E l’America consegna a sé a tutti noi l’immagine di un mondo in cocci, ove anche i cardini, direbbe Amleto, si son persi.