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Clima o industria? Il dilemma di Biden secondo Tabarelli (Nomisma)

La sfida dell’ambiente per Joe Biden: rincorrerà utopistici obiettivi ambientali dimenticandosi degli operai? Il commento di Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia

Ci risiamo. Di nuovo la sinistra commette l’errore di correre dietro a utopistici obiettivi ambientali e di evadere e dimenticarsi degli operai e della loro fatica da deindustrializzazione causata dalla globalizzazione. Joe Biden non aveva ancora finito di contare i voti, che subito si è affrettato ad annunciare il ritorno degli Stati Uniti all’interno dell’accordo di Parigi, firmato dal suo presidente Barack Obama nel dicembre del 2015. Durò molto poco per gli americani, perché Donald Trump ne uscì subito, coerentemente con quanto aveva sempre detto, ovvero che il cambiamento climatico è una grande balla. Obama aveva voluto a tutti i costi l’accordo di Parigi, anche per sollevarsi dal fallimento di sei anni prima a Copenaghen nel 2009, dove non riuscì a estendere l’accordo di Kyoto del 1997. L’eredità che gli aveva lasciato Bill Clinton, uno degli artefici di Kyoto, era un po’ pesante, e il fallimento della sua estensione non è stata mai digerita dal partito. Il ricordo va a un altro prestigioso vice, quello di Clinton, Al Gore, diventato grazie all’ambiente una star cinematografica con il film documentario Una scomoda verità, che gli valse addirittura il Nobel per la pace. Si capisce che Biden non ha alternativa se non scatenarsi sui cambiamenti climatici, anche per parare le pressioni della parte più radicale del partito che vuole impegni forti sulla crescita delle fonti energetiche rinnovabili e sulla limitazione dell’uso dei fossili.

L’errore di Biden riguarda il fatto che queste spinte ambientaliste lo allontanano dalla realtà delle fabbriche della Rust Belt, dove fino a poche ore fa non era ancora sicuro di vincere. Sono gli operai di quelle fabbriche che si devono confrontare con i prodotti che arrivano dall’Asia, dove le politiche ambientali sono molto più morbide, spesso inesistenti. L’adozione di politiche simili a quelle dell’Europa, come vorrebbe Biden, richiede l’imposizione di un sistema di commercio di permessi di emissioni di CO2 che aumenterà i costi per le aziende che consumano molta energia. Noi europei sappiamo bene che questo vuol dire prezzi dell’elettricità più alti, il doppio di quelli dell’Asia, che già hanno il vantaggio della manodopera quasi schiavile e di limiti ambientali ridicoli. I prezzi della CO2 saliranno negli Stati Uniti e inevitabilmente la competitività delle sue industrie peggiorerà, ma fra quattro anni Biden sarà ancora lì a chiedersi perché gli operai votano il prossimo populista di turno.

Facile parlare di clima, ma i paradossi americani sono eclatanti. Sono il Paese più energivoro in assoluto. Le emissioni di CO2 per abitante sono intorno a 17 tonnellate, contro le 7 dell’Europa e della Cina e le 2 dell’India. È di gran lungo il primo consumatore di petrolio, difetto che gli causa parecchi problemi in giro per il mondo, per una dipendenza, come fossero drogati, da benzina, i cui prezzi, perché non ci sono tasse, sono di 0,6 euro al litro, contro 1,3-1,4 in Europa. Tutto il sistema elettrico, dove dovrebbe concretizzarsi gran parte della transizione, soffre. Dipende ancora per quasi un quarto dal carbone, quello che Biden dovrà eliminare, probabilmente a parole, non nei fatti. Ancora più problematica è la questione relativa alle quasi 100 centrali nucleari realizzate prima degli anni Ottanta, ormai molto vecchie. Il nucleare conta per il 20% della produzione elettrica americana, le fonti nuove, comunque incentivate negli ultimi vent’anni da Obama e dai singoli Stati, oggi contano per il 10% del totale.

Sarà molto interessante vedere cosa farà con i petrolieri, molto odiati all’interno del partito, perchè tradizionalmente finanziano generosamente i repubblicani. Ha già fatto sapere, ma non è stato molto chiaro, che limiterà l’attività da fratturazione idraulica, una rivoluzione nell’industria dell’energia, che ha permesso agli Stati Uniti uno straordinario aumento della produzione di gas e il crollo dei suoi prezzi al di sotto di quelli del carbone. Per questo molte centrali a carbone hanno chiuso, con un loro contributo sceso dal 40% all’attuale 24% del totale.

Di questi aspetti ne è ben consapevole Biden, grazie alla sua lunga esperienza politica, e speriamo ne faccia tesoro, con una dose di maggiore realismo, a beneficio di tutta la sinistra, ma in particolare per quella Europea, troppo distratta da cambiamenti climatici e poco attenta alla competitività delle sue fabbriche.

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