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La vittoria di Biden sarà l’inizio della crisi dei democratici?

Di Luigi Curini e Andrea Molle

Il recente risultato elettorale ha dimostrato che gli anticorpi repubblicani potrebbero essere più forti e che – fuori dalle grandi città delle due coste – sono più i democratici di centro, moderati e liberali, ad essere attratti dal Gop che viceversa. L’analisi di Luigi Curini, docente di Scienze Politiche all’Università degli Studi di Milano e Andrea Molle, docente di Scienza politica a Chapman University (California)

Le elezioni americane ci devono fare riflettere sotto molti punti di vista. Se il risultato non verrà ribaltato dal riconteggio in corso in alcuni Stati o dalla Corte Suprema, Joe Biden avrà portato a casa un risultato straordinario superando il presidente uscente, Donald Trump, ma soprattutto conquistando Stati tradizionalmente Repubblicani, come la Georgia e l’Arizona. Questa tornata elettorale, che – salvo improbabili sorprese – interrompe la tradizione che vede tutti i presidenti, con rare eccezioni, investiti di secondo mandato, potrebbe tuttavia anche essere ricordata come l’inizio di una lunga e costosa guerra fratricida dentro il partito che fu di Kennedy e Clinton. Una guerra sopita dall’ingombrante presenza di Trump per 4 anni, ma che ora rischia di saltare agli occhi di chi non l’ha voluta vedere per troppo tempo. E che potrebbe portare a risultati imprevedibili.

La vittoria di Biden è infatti in gran parte dovuta all’aperta avversione, giustificata o meno ma certamente fomentata dalla retorica Dem, che metà del Paese provava e che continua a provare per Donald Trump. Certamente. Ma non solo. Quello che ha contato è anche il suo essere una figura sostanzialmente moderata e di continuità con la presidenza Obama. Un candidato non certo politicamente né esaltante né innovativo, anzi piuttosto “vanilla” (blando), e proprio per questo vincente. Perché è stata questa sua immagine a rassicurare l’America sul fatto che dopo la svolta populista a destra, il Paese non si sarebbe tuffato a capofitto nella sinistra liberal e iper-politicamente corretta di Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez e della sua “squad” che vede il mondo in bianco e nero, diviso cioè tra buoni (loro) e cattivi (tutti gli altri).

Una considerazione, corroborata dai dati elettorali. In questi giorni, nel parapiglia del conteggio dei voti, il Partito democratico si è reso infatti conto che la vittoria di Biden nasconde una bruciante sconfitta. Non solo i democratici non sono riusciti, almeno per adesso, a conquistare la maggioranza del Senato (nonostante tutte le previsioni dei “maghi” dei sondaggi sostenessero il contrario), ma hanno perso terreno nella House of Representatives. La tanto sperata “blue tide” (l’onda blu) non è avvenuta. Anzi, il partito repubblicano ha guadagno diversi seggi (che potrebbero arrivare fino a 13). In un balenare di accuse reciproche, i moderati democratici hanno puntato il dito contro i colleghi “Democratic Socialists” rei, a loro dire, di aver sbilanciato il partito su posizioni troppo radicali. Posizioni che hanno finito paradossalmente per penalizzare proprio i candidati centristi che si sono trovati a competere contro i repubblicani in seggi non blindati dall’utopistica narrazione “woke” delle grandi città liberal del Paese. Anche perché a livello locale da battere non c’era Trump, con il vantaggio che la cosa portava, ma politici repubblicani amati da molti per il loro saper interpretare, con i piedi per terra, le esigenze concrete delle loro comunità locali.

Non è certo un segreto che negli ultimi tempi il Partito democratico si sia focalizzato quasi unicamente sulle minoranze di genere e su quelle razziali, scelte peraltro in modo molto selettivo e in base sovente ad un metro di purezza ideologica, perdendo per questa via contatto con il resto del Paese. Accecato dalla propaganda postmodernista sfornata dalle Università degli Stati costieri, il partito ha dato l’impressione di essersi dimenticato della classe media e delle identità più tradizionali, come ad esempio quelle religiose, quando non ha apertamente assunto posizioni di ostilità nel loro confronti. Identità che però rappresentano un numero non banale di elettori americani. Il 3 Novembre, questa strategia radicale non ha pagato. Loro però, i liberals, negano ogni responsabilità e anzi rincarano la dose leggendo la sconfitta come la dimostrazione della necessità di spostarsi ancora di più a sinistra.

In questo momento è difficile fare previsioni, ma è certo che il ruolo del vice presidente, solitamente di secondo piano, potrà assumere un peso molto importante. Se infatti si confermerà lo stallo in Senato (un 50-50 che dipende dalle due prossime votazioni in Georgia), il voto di Kamala Harris sarà più importante che mai per promuovere l’agenda presidenziale. La vera domanda, a quel punto, è quanto della piattaforma sarà del presidente e quanto della sua vice. La figura di Kamala Harris, cui vanno ovviamente le congratulazioni per essere diventata la prima vicepresidente donna della storia degli Stati Uniti, è decisamente ambigua. Se oggi è assunta alle cronache politiche come una degli esponenti più progressisti del Partito democratico, di cui certamente incarna lo stereotipo di diversità, il suo passato come procuratore dello Stato della California sotto la presidenza Clinton l’ha vista spesso assumere posizioni di rigore e repressione, anche nei confronti delle minoranze, che non sono piaciute alla sinistra democratica e la rendono invece più vicina a molti suoi colleghi repubblicani. Bisognerà pertanto aspettare per capire come Harris si muoverà rispetto alla crisi interna del partito e che tipo di influenza deciderà di proiettare su Joe Biden, anche in funzione di un potenziale cambio al vertice in suo favore alle prossime elezioni del 2024. Potrà Harris, da tutti vista come la cedola di sicurezza per la sinistra, diventare l’ago della bilancia per una coalizione del presidente che taglia fuori entrambe le ali estremiste del Congresso Americano? Troppo presto per dirlo. Anche perché non è che al Gop, ovvero al Partito repubblicano, le cose vadano necessariamente meglio.

Tra un Trump che si autodichiara vincitore parlando ogni due per tre di complotti e brogli, e che potrebbe anche decidere di lasciare i repubblicani per correre da indipendente nel 2024, e complottisti alla QAnon contro il Deep State e il presunto Global Reset che, grazie al Covid-19, farà cadere il mondo nelle mani della grande finanza internazionale, la situazione anche qua è complicata. Insomma, se Atene piange Sparta certamente non ride, vero.

C’è però un ma. Il recente risultato elettorale ha infatti dimostrato che gli anticorpi repubblicani potrebbero essere più forti e che – fuori dalle grandi città delle due coste – sono più i democratici di centro, moderati e liberali, ad essere attratti dal Gop che viceversa.

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