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Chi è il comandante in capo? Un libro di Iodice

Di Alberto Castelvecchi

Prevale l’istituzione o il personaggio? Un saggio di Emilio Iodice sul ruolo del presidente degli Stati Uniti, la sua capacità di manovra e di lavoro istituzionale

Le elezioni presidenziali americane di questa fine 2020 verranno studiate per decenni come un evento eccezionale. Un unicum, o se si preferisce il punto di collimazione finale di una serie di processi che erano ormai arrivati a definitiva maturazione negli ultimi anni. Innanzitutto, quella che è stata definita la “Waterloo dei sondaggisti”. Parafrasando una sferzante battuta (sugli ufficiali di intelligence) attribuita a Winston Churchill, ormai si può dire che il compito dei sondaggisti è prevedere con assoluta accuratezza come andranno le cose, e poi con altrettanta accuratezza spiegarti perché non sono andate così. Ma probabilmente in questo caso le cose sono ancor più complesse: quello che sta uscendo dalle urne – e dalle cassette postali – in questi giorni negli Stati Uniti, mostra quanto la scienza dei fatti e delle previsioni possa essere preventivamente indirizzata e deformata dalla guerra delle parole, dei post, dei tweet, dei fake.

La retorica dei fronti contrapposti, in assenza quasi assoluta di riscontri oggettivi, è passata dai mesi di campagna in cui si diceva “andrà così perché deve andare così”, ai giorni in cui, a urne ancora aperte e in assenza di un quadro completo, abbiamo sentito dire “è andata così perché doveva andare così”. Indipendentemente dall’esito oggettivo delle elezioni, che in qualche modo (faticosamente) arriverà, il risultato certo è che, chiunque vinca, non verrà mai completamente accettato e legittimato dal fronte opposto. E questo non è un problema solo in termini di comunicazione, ma è un vulnus profondo alla più autorevole democrazia del mondo.

Quindi il vulnus, se qualcosa non cambierà, dalle parole potrebbe trasferirsi alla legittimità, allo status e quindi all’esercizio di leadership del futuro comandante-in-capo. Perché è proprio così che viene chiamato e considerato il presidente. Pur in un sistema articolato e molto efficace di checks and balances, cioè di contrappesi istituzionali e vincoli di mandato che la Costituzione ha edificato intorno alla Casa Bianca, è indubbio che il potere decisionale del suo inquilino è grande, grandissimo, e quindi chi studia i processi di leadership trova sempre nuovi spunti osservando cosa avviene nei pochi metri quadrati più “ovali” del mondo, quelli intorno alla scrivania del presidente. Per approfondire queste tematiche è molto utile la lettura del libro Il Comandante in Capo (The Commander in Chief), uscito pochi giorni fa negli Stati Uniti e già tradotto in italiano (acquistabile su Amazon), dello studioso e diplomatico statunitense di lungo corso Emilio Iodice.

Un saggio che ci fa e ci farà riflettere: da un lato si interroga su quali siano i requisiti, le caratteristiche psicologiche e di solidità umana necessari per diventare presidente. Da un altro ci offre una impareggiabile carrellata storica in cui si analizza lo stile di comunicazione, di governo e di decisione degli uomini (solo uomini, per adesso) che hanno ricoperto l’incarico più ambito della nazione. Il libro è sorprendente perché Iodice scrive da accademico (Loyola), studioso e autore di ricerche importanti, tanto che è uno dei più autorevoli lincolnologists (esperti di Abraham Lincoln) viventi. Ma parla anche da servitore dell’istituzione, perché come consigliere e diplomatico ha visto e frequentato almeno sei degli ultimi comandanti-in-capo, in mezzo secolo di carriera istituzionale.

Proviamo allora a trarre qualche spunto da questo denso e affascinante saggio, per orientarci sulle vicende di oggi. Innanzitutto, le caratteristiche assolutamente eccezionali dell’incarico fanno sì che, chiunque sia, il Potus (President of the United States) viene inevitabilmente osservato, passato al setaccio, misurato e monitorato in ogni passo che ha compiuto e che compie. Solo la carica di imperatore romano o di pontefice – che infatti attraggono anch’esse legioni di studiosi di leadership – ricevono tanta attenzione. Si elencano le indispensabili doti di comunicatore, di conduttore di uomini, di decisore. Si analizza come il singolo individuo impersona e incarna la missione storica assegnatagli. Vince l’istituzione o il personaggio? La personalità dell’uomo può sovrapporsi alla carica tanto da cambiarne i connotati? E l’esperienza concreta può modificare la personalità di un leader, quando si trova a guardare il mondo da una posizione così elevata? Per certi versi il libro di Iodice ricorda Il principe di Machiavelli. Perché di fronte a un ruolo così grande si deve per forza andare per tratti ideali: l’integrità, la compostezza emotiva nel fronteggiare momenti sconvolgenti – l’attacco a Pearl Harbor (Franklin Delano Roosevelt), l’attacco alle Due Torri (George W. Bush). La capacità di prendere decisioni anche terribili – come le atomiche di Hiroshima e Nagasaki (Harry Truman), o la guerra in Vietnam (John Fitzgerald Kennedy e Richard Nixon). A proposito di imprenditorialità, per esempio, si osserva che già molti presidenti prima di Donald Trump hanno avuto dimestichezza con i mercati – pensiamo al business di famiglia dei Bush, il petrolio, o a Jimmy Carter come imprenditore agricolo. E quindi, se per la storia europea quella di un premier businessman potrebbe sembrare un’eccezione, la perizia negli affari è una delle qualità più apprezzate negli Stati Uniti. Altri presidenti, al contrario, si distinsero per il lungo cursus honorum istituzionale, perché “quella di presidente non è una posizione per tirocinanti”. Ben diciassette presidenti sono stati governatori di Stato – già a partire da Thomas Jefferson (Virginia) e Roosevelt (New York), fino a Ronald Reagan (California), Bill Clinton (Arkansas), Bush Jr. (Texas). E, nonostante la carica di vicepresidente venga vista come poco significativa, nove vice sono diventati, nel corso della storia, presidente – tra questi Roosevelt, Truman, Lyndon Johnson, Gerald Ford  – e il decimo potrebbe essere proprio Joe Biden.

Ma due caratteristiche fondamentali sono e restano nella storia come una firma, un’idiosincrasia individuale e peculiare di ciascun Potus. La prima è lo stile di decisione. In un’Istituzione così tanto basata sul potere effettivo di un executive order, è interessante notare come in alcuni casi vinca l’istinto come quello di un Bush Jr., in altri il modo analitico da avvocato e giurista (inevitabilmente più lento) di chi si informa ripetutamente su tutto, come quello di un Barack Obama. In taluni casi domina l’empatia (Roosevelt) in altri l’impulsività (Trump). Quindi, verrebbe da dire: l’istituzione non cancella mai del tutto la persona, anzi ne evidenzia ed esalta vizi e qualità, all’ennesima potenza. La seconda caratteristica però è la capacità di manovra e di lavoro istituzionale: ciascun presidente, volente o nolente, con momenti di insofferenza e a volte momenti di vero scontro, dovrà misurarsi con le elezioni di mid-term, con la Camera, con il Senato, con i governatori degli Stati, con la Corte suprema. E poi con il Pentagono, con gli apparati di intelligence, con i gruppi di interesse economico, con i think tank, con i media, con Hollywood, con le università e, più recentemente, con i nuovi zar della tecnologia e dei social media. Tutti poteri forti, anzi fortissimi, che ancorano inevitabilmente anche la personalità più forte e avventurosa a un solido principio di realtà, e di lealtà istituzionale. E così è stato e sarà sempre: anche dopo il 20 gennaio 2021, quando il nuovo eletto varcherà la soglia della Casa Bianca, da nuovo (o riconfermato) presidente.


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