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Gli errori da non commettere con Gaia-X. Scrive da Empoli (I-Com)

Gaia X

Il destino è anche nelle nostre mani. Spetta a noi aprire una nuova pagina dell’Europa digitale del futuro, basata su maggiori investimenti e una forte affermazione di regole e valori improntata a criteri di apertura, trasparenza e sicurezza. L’intervento di Stefano da Empoli, presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com)

Il lancio ufficiale di Gaia X, tenutosi online mercoledì e giovedì, ha riacceso i riflettori su un progetto, quello di una federazione cloud europea, che sta diventando sempre di più l’epicentro della strategia digitale dell’Unione europea, improntata alla sovranità e all’autonomia strategica. Il controllo sui dati personali, e i profitti che ne derivano, hanno fatto dell’erogazione dei servizi cloud il tema centrale del dibattito sulla “sovranità digitale”. Secondo la presidenza tedesca del Consiglio Ue, “l’Europa deve fare affidamento sulla forza della sua ampia base di ricerca e promuovere la sua infrastruttura digitale e l’economia in crescita, assicurandosi che i valori democratici fondamentali del continente si applichino anche nell’era digitale”. Nata come iniziativa franco-tedesca, Gaia X si sta rapidamente allargando a nuovi aderenti, potendo contare finora sull’appoggio di ben 25 su 27 Stati membri e su 159 soggetti partecipanti (di cui ben 28 italiane).

L’interesse non stupisce affatto. L’idea di creare un ecosistema cloud unico ma allo stesso tempo aperto a livello europeo è assolutamente ottima. Peccato anzi che sia venuta in mente soltanto ora. Siamo ormai a quindici anni dalle prime offerte di servizi cloud negli Stati Uniti e in pochissimi anni il mercato è letteralmente esploso. Inutile aggiungere che i player principali di mercato sono statunitensi e, sia pure ancora a una certa distanza, cinesi. Le aziende europee, anche quelle che potevano avere un ruolo da protagoniste, a cominciare dalla tedesca SAP, ci hanno creduto poco e così le istituzioni. Il risultato è che, secondo un recente studio realizzato per la Commissione europea, oggi il gap di investimenti sul cloud dell’Europa è misurabile in 11 miliardi di euro l’anno.

Arrivati a questo punto, la partita deve essere giocata bene. Dalle premesse del progetto sembrerebbe che ci siano le condizioni per farlo, evitando alcuni possibili errori.

La prima e ovvia tentazione da evitare è quella di voler fare concorrenza diretta ai grandi player extra-Ue, immaginando la creazione a tavolino di uno o più campioni europei, ai quali indirizzare principalmente i 10 miliardi di euro che la Commissione europea vorrebbe fossero messi sul piatto nei prossimi anni, unendo risorse comunitarie e nazionali. Laddove, invece, la forza del progetto sarebbe proprio quella di essere una piattaforma neutrale e dunque il più possibile inclusiva, tesa a unire un network ampio di attori diversi, basato sui valori europei e su regole che assicurino interconnettività e interoperabilità, due punti ampiamente ricorrenti nella due giorni virtuale.

Questo non toglie che in un ecosistema così articolato e vario, improntato a principi di apertura, trasparenza e concorrenza, player europei possano crescere e giocare un ruolo decisamente più rilevante e innovativo dell’attuale. Senza tuttavia dimenticarci che, oltre agli attori tecnologici, occorre guardare a decine di milioni di imprese, in particolare piccole e medie, che aspirano a servizi tecnologici di qualità elevata e possibilmente a costi contenuti. Sui quali non potrebbero più contare qualora si imboccasse una strategia di esclusione dei giganti extra-europei del cloud, che possono vantare almeno al momento un evidente vantaggio di competitività derivante dagli investimenti e dalla scala, oppure incentrata su sussidi monetari per attività di mercato (altra cosa è la ricerca e sviluppo naturalmente) a player europei altrimenti non in grado di competere a livello internazionale. Peraltro, il rischio di un’evoluzione del genere sarebbe particolarmente forte per l’Italia, sia perché abbiamo una platea enorme di piccole e medie imprese, in gran parte ancora da digitalizzare, sia perché i nostri player ICT sono in media più deboli rispetto a Francia e Germania (e dunque avremmo allo stesso tempo molto da perdere e meno da guadagnare da una strategia del genere).

Il destino è dunque anche nelle nostre mani dato il lodevole coinvolgimento di tanti attori italiani, sotto l’attenta regia del Governo e di Confindustria. Spetta a noi aprire una nuova pagina dell’Europa digitale del futuro, basata su maggiori investimenti e una forte affermazione di regole e valori improntata a criteri di apertura, trasparenza e sicurezza. Senza dimenticarci che la neutralità, in questo caso tecnologica, serve anche a non perdere le innovazioni di domani. Evitando di ripetere gli errori del passato.

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