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Cosa c’è dietro la battaglia Trump-Twitter. Scrive Paravati

Il giorno dopo il voto Twitter ha bloccato ben sei tweet del presidente (seguendo le indicazioni del governo). Invece Facebook… L’analisi di Francesco Paravati

Donald Trump nella giornata del 5 novembre 2020, la più lunga della sua presidenza, ha visto ben sei tweet bloccati dal social network che ama di più, con la seguente motivazione: “Il contenuto condiviso in questo tweet è controverso e potrebbe essere fuorviante in merito alla modalità di partecipazione alle elezioni”.

Gli infiammati tweet sono stati catalogati come  “informazioni ingannevoli sui risultati elettorali”, una delle cause per cui twitter rivendica il diritto di “censurare” alcune esternazioni in periodi particolarmente delicati.

Delicati appunto come le ultime elezioni americane.

Ecco cos’è successo nella notte del 5 novembre. Intorno alle 19 East Time in America (l’una di notte in Italia), Trump ha tenuto una minacciosa conferenza nella sala stampa della Casa Bianca, in cui in 20 minuti di monologo ha accusato praticamente tutti i protagonisti delle istituzioni americani di un complotto gigantesco per l’illegale conteggio di milioni di voti altrettanto, presuntamente, illegali.

Subito dopo aver voltato le spalle ai giornalisti che lo sommergevano di domande, il presidente, o chi per lui,  ha iniziato a twittare, ma quello che ha scritto non ha superato il visto della censura di San Francisco.

Gli era già successo qualche ora prima, ma il presidente uscente ha perseverato facendosi annullare tre post in un’ora.

A qualcuno dei suoi è andato ancora peggio, il suo ex consigliere Steve Bannon ex anima del sito di news populiste Breitbart, si è infatti visto bloccare l’intero account twitter a causa dei suoi post di commento elettorale.

Ma cosa aveva twittato di così grave il presidente? Nulla di più, né di meno, di quello che grazie alla sua visibilità ha raccontato sui teleschermi di tutto il mondo, senza contraddittorio né censura. Ovvero che i voti che lo stavano precipitando nell’imbarazzo della sconfitta erano illegali.

Il primo tweet precisava che, a suo parere tutti i voti pervenuti dopo la mezzanotte del 3 novembre non sarebbero stati contati.

Nel secondo tweet il presidente (o il suo staff) attaccava direttamente il suo avversario colpevole di dichiarazioni troppo ottimistiche su una vittoria in democratica in arrivo: “Biden sarà denunciato per frode elettorale”, aveva scritto.

Nel terzo tweet,, in una escalation di irritazione, l’account del presidente è stato ancora più chiaro: “Fermiamo la Frode!” Ha urlato ai suoi quasi 90 milioni di followers, non tutti supporters, a giudicare dalle risposte che ha ricevuto (l’account @realDonaldTrump conta 88.467.039 followers, ne segue solo 50, tra parenti staffers e fan club di se stesso, e ben 58.151 tweet all’attivo).

Il terzo tweet forse il più innocente di tutti non era altro che lo spezzone della conferenza stampa che, poco prima The Donald aveva tenuto alla Casa Bianca, 20 secondi tratti dalla Fox News nel passaggio in cui Trump definiva Detroit e Philadelphia, capitali di due Stati contesi come Michigan e Pennsylvania, come due città notoriamente corrotte e avanzava le accuse più dure contro l’evidente truffa elettorale che, a suo parere, stava subendo.

I solerti addetti social dello staff di Trump ha riprovato tre volte di seguito a ripubblicare stralci della conferenza, vedendoseli censurare ogni volta, in una sorta di braccio di ferro telematico tra Twitter e lo staff della Casa Bianca (i tre tweet prima di essere sospesi sono comunque stati visualizzati da oltre 10 milioni di persone!).

Alla fine estenuato da tanta indomita resistenza Trump si è rivolto proprio contro il suo social network nel tweet successivo, ormai a notte fonda: “Twitter è fuori controllo, il che è possibile grazie al regalo governativo della Section 230!” senza riuscire stavolta a farselo sospendere (non parlava di elezioni ma della disonestà di Twitter).

Sarà stato un caso ma da quel momento a San Francisco hanno smesso di sospendere i tweet presidenziali, intanto il social era stato attaccato in diretta tv dai commentatori della Fox e da buona parte della famiglia Trump.

Il riferimento alla Section 230 non è casuale. Si tratta infatti della sezione del  Communication Decency Act che in realtà, almeno in origine, stabilisce tutto il contrario di quanto recriminato oggi da Trump, sancendo la “non responsabilità” per i social network e gli internet provider, per i contenuti postati da altri utenti.

In sostanza una sorta di liberatoria per i padroni di internet che nel tempo ha subito però varie e sostanziali modifiche, affermando via via  una loro responsabilità  per la mancata rimozione di contenuti a sfondo sessuale prima, poi colpevoli di hate speech o cyberbullismo.

Ma solo durante l’ultima presidenza, in seguito alle presunte ingerenze degli hacker russi nelle ultime, il governo ha chiamato i social network a una maggiore responsabilità sui post a contenuto elettorale. I democratici hanno lamentato troppa tolleranza verso i contenuti postati dai repubblicani, questi ultimi una preferenza verso i contenuti di matrice democratica. Twitter ha preso evidentemente, tali raccomandazioni sul serio, a differenza di Facebook che è rimasto a margine della disfida elettorale per conclamate ragioni economiche (è stato l’unico social network a continuare ad accettare spot elettorali) .

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