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Da Israele all’Iran, la road map di Biden in Medio Oriente

Di Dario Cristiani

Rottura o continuità? Come si muoverà l’amministrazione di Joe Biden in Medio Oriente? Dario Cristiani, fellow del German Marshall Fund e dell’Istituto affari internazionali, spiega la road map del nuovo governo Usa nella regione, dagli accordi di Abramo alle tensioni con il sultano turco Erdogan

Mentre si attende l’ufficializzazione dei risultati elettorali, non è impossibile delineare già ora, a grandi linee, la direttiva di politica estera dell’amministrazione di Joe Biden in Medio Oriente, e in particolare nei confronti della Fratellanza Musulmana. Come è noto, la Fratellanza costituisce nella regione una delle principali linee di faglia dello scontro tra blocchi di potere nello spazio arabo-islamico sunnita: Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita ed Egitto da un lato contro Turchia e Qatar dall’altro.

Il modo in cui l’amministrazione Trump ha gestito le relazioni con questi Paesi è un ottimo esempio della sua “diversamente continua continuità”: il presidente repubblicano non ha mai sconfessato i pilastri dell’approccio americano nell’area. Sebbene Trump fosse personalmente legato e portato a supportare le istanze emiratine, egiziane e saudite, questa relazione non ha mai distrutto il legame tra americani e qatarini, ad esempio.

Probabilmente la vicinanza personale di Trump al blocco anti-Fratellanza ha rappresentato uno dei fattori – una sorta di semaforo verde – che hanno spinto gli emiratini e i sauditi a lanciare il boicottaggio del Qatar nel 2017 e che, a tre anni di distanza, ha avuto risultati nulli dal punto di vista strategico. Gli Usa, però, non hanno mai sconfessato il ruolo del Qatar come pilastro strategico della propria presenza militare nel Golfo Persico, nonostante il Qatar sia il Paese arabo più legato alla Fratellanza. E, a riprova di questo, nel settembre 2020 gli Stati Uniti non hanno fatto mistero della propria volontà di voler designare il Qatar in futuro come major non-NATO ally. La proposta di Trump di designare la Fratellanza come organizzazione terroristica era certamente legata all’influenza che il blocco anti-Fratellanza aveva su di lui più che di altre logiche, ma anche tale idea non ha avuto un impatto negativamente significativo sulle relazioni tra Washington e Doha.

LA TURCHIA

Rispetto all’altro grande patrone regionale della Fratellanza, la Turchia, anche qui l’amministrazione Biden difficilmente stravolgerà le relazioni con un alleato di peso della Nato. Certo, alcuni aggiustamenti ci saranno: molti osservatori sia a D.C. che ad Ankara hanno spesso osservato come la relazione personale tra Trump e Erdogan avesse permesso al secondo di ridurre la pressione sulla Turchia rispetto a tutta una serie di questioni: dagli S-400 russi all’approccio verso i curdi, dal deterioramento degli standard democratici turchi fino all’aggressivo ruolo turco nel Mediterraneo di questi mesi.

Questa relazione non ha però evitato un rafforzamento delle relazioni americane con la Grecia, e – nonostante tutto – gli americani non hanno apprezzato le intese tattiche che Ankara e Mosca hanno siglato – e siglano – in vari teatri nel Mediterraneo allargato. L’uscita di Trump significherà probabilmente una minor capacità di Erdogan di frenare i fremiti antiturchi che arrivano dal Congresso in maniera assolutamente bipartisan. Un fronte che nutre simpatia verso la causa curda e, come larga parte del mondo politico americano, una profonda avversione nei confronti della Russia. In un contesto in evoluzione nel Caucaso meridionale, con l’Azerbaijan sul punto di ottenere un risultato storico nel Nagorno-Karabakh grazie al supporto militare turco, le pulsioni pro-Armenia da sempre presenti nel Congresso probabilmente approfondiranno il solco tra Stati Uniti e Turchia anche con un’amministrazione Biden.

MA CON ERDOGAN NON CI SARÀ ROTTURA

Ciò detto, l’idea di un’amministrazione americana pronta a rompere in maniera strutturale con la Turchia sembra al momento uno scenario assolutamente irrealizzabile, a meno che non ci siano eventi cosi traumatici da allontanare la Turchia una volta e per tutte dalla Nato, evento ad oggi improbabile. Se così fosse, sarebbe un fatto davvero epocale, e per succedere dovrebbe esserci un cambiamento sistemico nelle vedute e nelle percezioni sia di Ankara che di Mosca. Certo, non da escludere del tutto, ma al tempo stesso veramente complicato.

GLI ACCORDI DI ABRAMO

Rispetto alle relazioni con il blocco anti-Fratellanza, anche in questo caso, al netto di una diversa, e più classica, relazione tra il presidente e i leader emiratini, sauditi ed egiziani, fragorosi cambiamenti sono da escludere. La nuova amministrazione chiaramente non sconfesserà gli accordi di Abramo, probabilmente il successo di politica estera più visibile dell’era Trump. Successo, però, che è stato spesso frainteso e anche un po’ esagerato: tali accordi sono stati visti nell’ottica strategica del conflitto arabo-israeliano, ma questa è una visione formale e limitata. Si tratta infatti di un accordo principalmente anti-iraniano. Nonostante l’amministrazione Biden sia destinata ad avere una postura diversa rispetto all’Iran, la necessità di contenere Teheran non cesserà di esistere.

IL NODO PALESTINESE

Dal punto di vista della questione palestinese, gli accordi di Abramo certificano una serie di realtà strategiche che esistevano da tempo, e che tali accordi hanno solo formalizzato: la marginalizzazione definitiva della questione palestinese rispetto alla geopolitica regionale; la formalizzazione di relazioni tra Israele e alcuni paesi del Golfo che si sviluppavano da almeno 20 anni; la certificazione del disinteresse di molti attori statali del mondo arabo per il destino dei palestinesi. Ma gli accordi di Abramo non sono, come alcuni li hanno presentati, una svolta strategica per il conflitto tra arabi e israeliani come furono gli accordi di Camp David con l’Egitto: la pace fredda egiziano-israeliana ha eliminato il principale problema militare-convenzionale per Israele – questa sì una svolta assoluta – mentre l’accordo di normalizzazione diplomatica ha semplicemente formalizzato relazioni esistenti da decenni di paesi che non sono mai stati in guerra con Israele e ha stabilizzato un arco di contenimento dell’Iran che va dal Mediterraneo al Golfo Persico. Un elemento in più che Biden potrà sfruttare per ricalibrare l’approccio americano verso Teheran, in risposta all’arco di influenza iraniana che si spinge da Siria e Libano nel Mediterraneo fino al Golfo Persico passando per l’Iraq.

I DUBBI DEGLI EVANGELICI

Guardando questi accordi da un altro punto di vista, si può osservare un fatto curioso: nonostante gli accordi non prevedessero una rinuncia israeliana all’annessione di parti della Cisgiordania, ma solo una sospensione le cui tempistiche sono molto vaghe, l’accordo non è mai piaciuto ad alcune anime della destra evangelica americana. Ad osservare alcuni numeri delle elezioni, pare che Trump abbia perso voti in questo settore dell’elettorato. Sarebbe un paradosso interessante se, quando le analisi sul voto americano saranno più approfondite e puntuali, si dovesse scoprire che il principale successo di Trump in politica estera gli abbia fatto perdere voti in uno dei gruppi cruciali per la sua elezione nel 2016.

TRUMP E IL MEDIO ORIENTE: UN BILANCIO

In conclusione, le relazioni storiche degli americani con le varie anime della Fratellanza non sono che un’appendice di discorsi diplomatici e strategici a più ampio raggio. L’approccio dell’amministrazione Biden sarà coerente con questo dettato strategico. Ciò che successe negli anni di Obama, dove Biden aveva un ruolo significativo come vicepresidente, si spiega con la congiuntura peculiare legata alle Primavere Arabe, e infatti non ha mai dato vita a un approccio realmente strategico. Da questo punto di vista, guardando alla nuova amministrazione, laddove una collaborazione con gruppi legati alla Fratellanza può essere funzionale ad avanzare interessi americani, non vi sarà pregiudizio e si cercherà il contatto. Ma ciò avverrà caso per caso.

Rispetto alla competizione nello spazio strategico-diplomatico sunnita, la presidenza Trump è stata meno rivoluzionaria di quanto potesse apparire in un primo momento. Certo, il legame personale tra Trump e i Paesi del blocco che vedono la Fratellanza Musulmana come nemico ontologico era evidente. Eppure questo legame personale non ha portato gli americani a rivedere le relazioni con i paesi che la Fratellanza la supportano e che sono altrettanto importanti per Washington, come il Qatar e la Turchia, neanche durante una presidenza come quella di Trump molto sensibile ai desiderata di Abu Dhabi, Riyadh e il Cairo. Le relazioni personali tra Trump e Erdogan, al contrario, hanno addirittura permesso al secondo di evitare tutta una serie di problemi che avrebbe dovuto affrontare, probabilmente, con un’amministrazione diversa.

A livello strategico, difficilmente queste realtà muteranno nei prossimi quattro anni con Biden come presidente. Gli americani manterranno relazioni importanti con tutti i Paesi di questi due blocchi che, per svariati motivi, sono entrambi cruciali per Washington. Inoltre, per gli Americani, il vero problema regionale resta l’Iran. L’asse che potrebbe subire uno scossone più significativo è quello tra Washington e Ankara: Trump aveva rappresentato una barriera contro la pressione anti-Erdogan che arriva da Congresso e vari frammenti dell’amministrazione americana.

Se il leader turco non dovesse rivedere alcune delle sue mosse, difficilmente l’amministrazione Biden userebbe le buone maniere. Ma il presidente-eletto non ha alcun interesse ad alienare la Turchia, ed Erdogan è estremamente più pragmatico di quanti molti in Europa e negli Stati Uniti sono portati a credere: basta vedere quante posizioni e orientamenti l’attuale leader turco ha cambiato dal 1994, anno della sua dirompente comparsa sulla scena politica turca come sindaco di Istanbul, ad oggi.

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