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L’Italia e i debiti degli altri (occhio alla Cina…)

Impressionante la situazione della Cina dove il confine tra pubblico e privato è molto labile; a ragione del forte indebitamento delle grandi imprese il debito totale di Pechino è pari al 335% del Pil. Da considerare per la prossima presidenza dell’Italia al G20. L’analisi di Giuseppe Pennisi

L’attenzione della stampa e dell’opinione pubblica italiana sono rivolte principalmente al debito della nostra Pubblica amministrazione e a quello contratto dal settore pubblico del resto d’Europa specialmente da quando la pandemia è giustamente il centro delle politiche economiche e sociali, nonché alle possibili soluzioni nel quadro dell’eurozona.

Occorre, però, riflettere sul quadro mostrato alla riunione della fine della settimana scorsa del G20: il debito globale (includendo sia quello del settore pubblico che quello delle imprese e delle famiglie) sfiora il 370% del Pil mondiale. Sono due cifre non omogenee: dato che una (il debito) è uno stock e la seconda un flusso. Il rapporto, tuttavia, indica una profonda disfunzione.

Per vaste aree geografiche e contando unicamente il settore pubblico, il debito del Canada e degli Stati Uniti tocca rispettivamente il 114% ed 131% del Pil, in Europa l’Italia (al 162%) segue solo la Grecia (al 205%,) e nel complesso quello dell’eurozona è aumentato, in un anno, dall’84% al 101% del Pil. In America Latina, il debito del settore pubblico argentino è stato ristrutturato per la nona volta e quello del Brasile è tornato a superata il 100% del Pil.

È migliorata la situazione dei Paesi “emergenti” asiatici sotto il profilo del debito del settore pubblico ma si è avuta una forte espansione di quello delle imprese con il risultato che il debito totale è passato dal 222% al 248% del Pil.

Impressionante la situazione della Cina dove il confine tra pubblico e privato è molto labile; a ragione del forte indebitamento delle grandi imprese il debito totale di Pechino è pari al 335% del Pil. Ciò dovrebbe indurre governi ed imprese ad essere cauti a fare affari sulla Via della Seta. In Africa, il debito pubblico del Sudan tocca il 260% del Pil, e quelli dell’Eritrea, del Mozambico, dell’Angola dello Zambia, delle Maldive, dello Zambia e del Congo 186%, 121%, 120,6%, 120%,118% del Pil.

Una matassa difficile da dipanare. E chi si troverà a farlo è l’Italia che dal primo gennaio assume la presidenza del G20 per un anno e che problemi di debito ne ha già abbastanza per conto suo.

All’epoca della grande crisi debitoria dei Paesi in via di sviluppo, negli anni Ottanta del secolo scorso, l’Italia svolse un ruolo importante, non direttamente ma “prestando” alle Nazioni Unite l’ex presidente del Consiglio Bettino Craxi, il quale con il supporto di una piccola quadra italiana e di un nutrito comitato scientifico internazionale redasse un rapporto che a fine 1990 venne approvato all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e determinò un quadro di riferimento sino a pochi anni fa. Il quadro si basava su riduzioni dei crediti delle organizzazioni internazionali e degli Stati per i Paesi più poveri (come Eritrea e Mozambico) e su ristrutturazioni concordate nell’ambito del Club di Parigi per i debiti del settore pubblico e nell’ambito del Club di Londra per quelli del settore privato. I due Club pre-esistevano la “missione Craxi”, ma vennero rivitalizzati e potenziati.

Possono il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ed il ministro degli Affari Esteri della Cooperazione Internazionale Luigi Di Maio rispolverare ed aggiornare il “rapporto Craxi” e portarlo al G20? Non proprio. Per ragioni tecniche e politiche.

Sotto il profilo tecnico, la natura del debito è cambiata. Trent’anni fa era con istituzioni finanziare pubbliche e private. Negli ultimi anni hanno prevalso emissioni di obbligazioni (e di derivati basati su obbligazioni) a volte molto complesse. Gli aspetti tecnici sono superabili soprattutto se la Farnesina lavora fianco a fianco con Via Venti Settembre e Via Nazionale. Più complessi quelli politici. La Cina è diventata un player principale sia come debitore sia come creditore e la natura della China Development Bank è, quanto meno, ibrida: formalmente un’istituzione bancaria indipendente ma controllata dal Partito Comunista Cinese e dal Governo della Repubblica Popolare Cinese. La Cina, poi, non ha mai voluto partecipare al Club di Parigi e tanto meno al Club di Londra.
Conte e Di Maio riusciranno a fargli cambiare idea?

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