Giusto l’invito del ministro degli Esteri su Repubblica alla cooperazione internazionale. Ma la dottrina e l’ideologia che lui oggi rigetta non sono estranee anche alle organizzazioni internazionali cui si appella, dalla Nato all’Ue, e non sempre è un male. Il corsivo di Antonio Campati, ricercatore dell’Università Cattolica del Sacro Cuore
Ha indubbiamente ragione il ministro Di Maio a sottolineare la necessità di un approccio multilaterale per la gestione delle più complesse questioni globali.
D’altronde il Covid-19 ci dimostra quotidianamente che anche le più sofisticate previsioni possono perdere di valore nel giro di poche ore.
Ma la necessità di affrontare in maniera coordinata le sfide sempre più incalzanti che le democrazie si trovano ad affrontare non deve essere confusa con la ricerca di un consenso globale, per così dire. In altre parole, dovrebbe essere preso con più cautela l’auspicio a superare gli steccati ideologici.
Un invito del genere – per essere sinceri – è ricorrente nel dibattito pubblico e talvolta è molto utile per raccogliere consensi trasversali, specie in un periodo nel quale la sfiducia nei confronti della politica è molto alta.
Ma quasi tutte le grandi organizzazioni alle quali facciamo appello sempre più frequentemente – come, per esempio, l’Unione europea e la Nato – sono il frutto di precisi progetti politici innervati da un insieme di credenze ideologiche. La stessa democrazia liberale è il risultato di una serie di equilibri tra visioni in passato anche diametralmente opposte.
Dunque, specie in una fase nella quale occorre ricostruire alcuni ponti forse troppo frettolosamente distrutti (relazioni tra Stati, ma non solo), è necessario lavorare alla definizione di una precisa “dottrina” per affrontare il futuro.
Ciò non significa costruire steccati, ma elaborare progetti politici di lungo periodo, attorno a valori precisi. Più o meno condivisibile, la visione che ha esposto il presidente Macron nei giorni scorsi va in questa direzione.