Se i popolari europei sciogliessero il nodo identitario, e i “sovranisti” continuassero nel processo di maturazione culturale-politica che sembra già avviato, si aprirebbero nuovi spazi di reciproco riconoscimento e di comune azione. La bussola di Corrado Ocone
È un crinale sempre più stretto e un percorso sempre più irto di ostacoli quello in cui si muove il centrodestra italiano che al governo vorrebbe tornare in tempi ragionevoli. Ed è un percorso pieno di paradossi se è vero che, in questo periodo di assenza dal potere, si è presa finalmente consapevolezza dell’importanza dei rapporti e dei contesti europei e internazionali anche per governare a Roma.
È un paradosso evidente, ad esempio, quello di cui dà conto il vicesegretario leghista, nonché delegato agli esteri del partito, Giancarlo Giorgetti, quando riflette sul fatto, in un’intervista a Repubblica, che la simpatia del suo partito andava tutta a Donald Trump ma che da lui o dal suo ambiente, in questi anni, non è venuto nemmeno un cenno non dico di supporto ma neanche di interesse. In modo che oggi, aggiungo, quando i media leggono la sconfitta di Trump come una sconfitta in Italia del leader che, per stile e idee più gli si avvicinava, cioè Matteo Salvini, l’impressione che si ha è che la Lega si trovi suo malgrado anche “cornuta e mazziata”.
Il problema diventa allora molto concreto, realistico per Giorgetti, che, senza perifrasi, dice: “Siamo interessati a un dialogo con la nuova Amministrazione”. Ed è la frase che più pesa in un’intervista in cui per lo più si cerca di dare del “trumpismo”, e dello stesso “sovranismo”, un’immagine storico-ideologica che lo svincoli dal controverso personaggio che in questi anni lo ha incarnato. “Dialogo”, “farsi conoscere”, dice Giorgetti, nell’ottica del punto su cui la Lega mai transigerà: l’atlantismo. Che è dire tanto, oggettivamente e anche per certi rapporti per quanto marginali intrattenuti nel passato con la Russia, ma anche dire poco, visto che la cultura politica della destra italiana, quando sarà elaborata, non potrà che porsi in antitesi con la cultura tutta diritti e minoranze, cioè col politically correct, che oggi predomina nel Partito democratico anche se forse non ancora del tutto nella società americana ad esso afferente come la scelta (a questo punto vincente) di Biden come candidato potrebbe aver dimostrato.
In quella che potrebbe apparire una “corsa sul carro del vincitore”, ma è in definitiva solo il sano realismo di chi vorrebbe governare ma si trova qui ed ora in un cul de sac che gli impedisce anche solo di pensarlo, Silvio Berlusconi è stato, come al solito, ancora più spregiudicato. Fino ad arrivare a dire di puntare sull’amministrazione Biden, prima di tutto per ricostruire quel rapporto transatlantico che con Trump si era spezzato e che per un liberale vecchia maniera come lui resta evidentemente fondamentale.
E così il convitato di pietra, l’Europa, riappare come il vero cuore della questione. Con un Berlusconi che parte avvantaggiato per la sua presenza nel Partito Popolare. È qui, in quest’area politica, che si gioca, più che oltreoceano, il futuro della Lega e del centrodestra italiano. Non nel senso di un’adesione di Salvini, ad oggi veramente prematura, al più grande raggruppamento politico continentale, ma in quello di una risoluzione delle contraddizioni presenti in casa popolare e che oggi la leadership di Angela Merkel riesce a malapena a non far emergere. Può avere molto ancora a che fare la famiglia popolare, di ispirazione cristiana e liberale, con il radicalismo di sinistra e con l’impostazione culturale, francamente relativistica, delle forze politiche che oggi danno il tono all’Europa e in America al Partito democratico?
Se i popolari europei sciogliessero questo nodo identitario, e i “sovranisti” continuassero nel processo di maturazione culturale-politica che sembra già avviato, si aprirebbero nuovi spazi di reciproco riconoscimento e di comune azione. Si rilancerebbero certi valori e si potrebbe sperare di dare in Italia uno sbocco politico ai propri consensi elettorali.