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Il divorzio (in Italia) compie 50 anni. Il commento di Paganini e Morelli

Di Pietro Paganini e Raffaele Morelli

Da questa legge abbiamo imparato che dobbiamo restare sempre concentrati sulla realtà dei fatti che riguardano gli individui, per elaborare regole di convivenza che promuovano le libertà dei cittadini e dei loro rapporti interpersonali

Il prossimo 1 dicembre ricordiamo i 50 anni della Legge (n. 898/70) che disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio, meglio nota come Legge sul Divorzio. Ma non può essere un rito della memoria e basta. Fu un cambiamento epocale dei rapporti quotidiani tra i sessi che resta vivo ancora oggi. È importante celebrarlo per riflettere sul percorso di sviluppo delle libertà nella convivenza tra cittadini; ma anche per maturare quella consapevolezza utile ad arricchire i nostri comportamenti quotidiani odierni.

La nuova legge fu necessaria per introdurre i caratteri di civiltà dell’istituto del divorzio e per superare l’arretratezza di ampi settori della società di allora. Si dovevano sconfiggere anche le fantasiose paure per cui il divorzio avrebbe disgregato la famiglia.

Si trattò di convincere i cittadini che non si può stabilire a priori come sarà la vita. Un matrimonio può fallire: non si aggiusta stabilendo per legge che, una volta commesso l’errore, non sia più possibile correggerlo. Sarebbe una concezione di fideismo religioso. Non concedere la possibilità di poter rimediare all’errore sciogliendo un rapporto malato che causa forti disagi individuali e non lievi riflessi sociali, è un limite alla libertà individuale che si fonda sulla responsabilità dei singoli. Una civiltà è laica quando i rapporti tra individui diversi sono trasparenti e liberi dalle apparenze dei dogmi di retaggio medievale.

Il divorzio serio fu introdotto in contrasto con il divorzio all’italiana, per fissare precise garanzie legali al fine di evitarne ogni abuso.
Dette l’opportunità di porre rimedio a situazioni corrispondenti ad autonome decisioni dei coniugi. Fu una terapia salutare per impedire il protrarsi dell’ipocrisia della società italiana di allora nel ricorrere ai meschini sotterfugi e alle finzioni.

Fu strumento di educazione. Perché consentì ai figli di evitare il penoso spettacolo degli inganni reciproci, lo stato di continua tensione, che non favorivano un ambiente consigliabile per una formazione equilibrata. Un divorzio serio e responsabile era sicuramente preferibile all’ipocrisia del divorzio all’italiana fatto di violenza e doppiezza. E non avrebbe creato, come non creò, divisioni di natura religiosa.

La Legge sul Divorzio ha avuto un travaglio lungo e complicato. Per oltre un anno i due promotori, Baslini e Fortuna, raccolsero il sostegno (solo) del Partito Liberale. Il Partito Socialista non appoggiò Fortuna fino all’autunno 1968; il Partito Comunista esibì una fredda ostilità; la Democrazia Cristiana e il Movimento Sociale erano apertamente contrari (con una compatta determinazione superiore a quella ecclesiale).
Poi con un’azione capillare che fece breccia sulla stampa – in particolare con l’aiuto dei settimanali ABC ed Espresso – e con la spinta di gruppi della società, come la Lega Italiana per il Divorzio e una selva di associazioni locali di cittadini Liberali, Radicali e Socialisti, il progetto unificato Baslini/Fortuna conquistò la maggioranza in Parlamento.

In questo percorso fu seguita la linea delle idee riferite alla vita di tutti i giorni e dei principi politici da adottare per realizzarle. Il successo arrivò prima in Parlamento e poi con il Referendum, ma tre anni e mezzo più tardi. Qui superò tutte le previsioni non soltanto della Chiesa e della Democrazia Cristiana ma anche dei Comunisti. Le prime due erano convinte e il terzo temeva, che il Parlamento non fosse davvero rappresentativo della volontà dei cittadini. Invece la maggioranza nelle urne ­– l’affluenza arrivò al 87,72% – fu perfino più ampia di quella Parlamentare (59,26% contro il 53,45% alla Camera e il 52,23% al Senato).

Dal 1° dicembre 1970 la Legge è stata irrobustita nell’impianto attraverso vari aggiustamenti. Anche gli avversari di allora riconoscono l’importanza della sua introduzione.

Da questa legge abbiamo imparato che dobbiamo restare sempre concentrati sulla realtà dei fatti che riguardano gli individui, per elaborare regole di convivenza che promuovano le libertà dei cittadini e dei loro rapporti interpersonali: abbiamo capito che dobbiamo evitare che questo approccio laico venga travisato in ideologico, soggetto cioè, ad un’idea fissa di come i comportamenti dei singoli dovrebbero essere. Questo, ad esempio, si verifica nel momento in cui la cultura storicista tipica del marxismo di cui è imbevuta la cultura italiana vuole politicamente appropriarsi di battaglie di libertà.

Le responsabilità del travisare va ricercata anche nei media. Essi hanno stravolto nel tempo la narrazione sul divorzio come sull’aborto. Si cominciò negli anni ’70 del ‘900, quando un po’ alla volta i mezzi di comunicazione instillarono la convinzione falsa che divorzio e aborto fossero stati fatti dai Radicali (che non erano in Parlamento durante la Legge sul Divorzio e quanto all’aborto non furono mai favorevoli alla legge 194/78, contro cui votarono no in parlamento e sì per l’abrogarla al referendum del 1981). Ed è da qui che è iniziata a diffondersi l’idea che non contasse il parlamento ma quello che si presume vogliano le piazze e i mass media.


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