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Maradona, un talento sovrumano sotto una cascata di riccioli neri. Il ricordo di Giuliani

È delle imperfezioni che ci innamoriamo, in loro ci riconosciamo più facilmente. Nei suoi clamorosi errori, nelle cadute ci possiamo rivedere tutti. Almeno, chi riconosca la debolezza insita nell’uomo. Ancor di più, nel ragazzino lanciato alla conquista dell’universo, inseguendo una palla

Vi voglio raccontare una storia. È la storia di un ragazzo che aveva tutto contro e che avrebbe scalato il mondo a piedi nudi. E solo di sinistro.

Il talento sovrumano sotto una cascata di riccioli neri: così quel ragazzo si presentò all’attenzione dei cinque continenti. Quando per fare il giro del mondo e diventare famoso, senza social, con una manciata di video, dovevi essere toccato dall’altissimo. Sapeva di essere un predestinato, di non essere uguale agli altri. La consapevolezza, dalla più tenera età, del proprio destino può essere un fardello insopportabile. Così è stato per larghi tratti della sua vita. Non sapremo mai dove si fermasse l’uomo e cominciasse il fuoriclasse o viceversa, probabilmente non era in grado di distinguere i ruoli neppure lui. Con quel vezzo di parlare in terza persona, c’era l’uno e anche l’altro. Sempre.

L’Europa lo accolse con le sue promesse miliardarie, ma non era destinato all’Europa. Era destinato a Napoli. Talvolta il destino si diverte a giocare con gli uomini, piccoli o grandi che sianoi, con i nostri sentimenti, creando connessioni capaci di annullare il tempo e la distanza. Lui, nato in un polveroso sobborgo della più italiana delle metropoli sudamericane, sapeva che Napoli era il suo destino. Non a livello conscio, tempo dopo avrebbe confessato di aver scelto Napoli senza sapere praticamente nulla di città e squadra, solo per fuggire da Barcellona. Lo sapeva ogni fibra del suo corpo e questo sarebbe bastato. Eccome se sarebbe bastato.

Lo avrà avvertito, ne siamo certi, anche ogni suo ricciolo nero, mentre saliva le scale del San Paolo in quel pomeriggio di luglio del 1984. Niente fu più come prima, per lui, per il calcio italiano, per Napoli. Al punto da non essere mai più andato via.

Oggi, non puoi dire Napoli senza dire lui. Non puoi pensare alla sua vita senza Napoli.
Il tempo lava tutto, i dolori, le incomprensioni e persino i trionfi. Alla fine, non sapremo dire quanto contino gli scudetti e le coppe. Tanto, ma mai, mai come essere sotto la pelle e nel cuore dei napoletani. Quarant’anni dopo.
Nella testa e nelle lacrime di chi non era neppure nato, esattamente con le stesse emozioni provate oggi da chi per sette anni salì le scale del San Paolo per affacciarsi sul paradiso. Questa è l’eredità infinita, come quel talento da cui tutto prese le mosse, ma che da solo non sarebbe mai bastato a spiegare tanto amore. Tanta riconoscenza.

È delle imperfezioni che ci innamoriamo, in loro ci riconosciamo più facilmente. Nei suoi clamorosi errori, nelle cadute ci possiamo rivedere tutti. Almeno, chi riconosca la debolezza insita nell’uomo. Ancor di più, nel ragazzino lanciato alla conquista dell’universo, inseguendo una palla.
L’unico uomo della storia capace di vincere da solo un campionato del mondo di calcio ha perso tante volte, nella vita e sul terreno di gioco.

Il suo vero trionfo si chiama Amore e resisterà – solo quello, mentre tutto il resto passa – allo scorrere del tempo. Come un’eco per le prossime generazioni, che parte da quelle scale assolate dello stadio San Paolo nell’84 e comincia un viaggio infinito. L’eco di un nome.
Diego.



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