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Nagorno-Karabakh, un nuovo momento balcanico per l’Ue. Scrive Castaldo (M5S) 

Di Fabio Massimo Castaldo

In un momento in cui la Commissione dichiara di voler far assumere all’Unione europea una postura “geostrategica” è imperativo agire in modo più assertivo, visto che uno dei conflitti più sanguinosi degli anni Novanta, quello tra Azerbaigian e Armenia in Nagorno-Karabakh, è deflagrato nuovamente. L’intervento di Fabio Massimo Castaldo, vicepresidente del Parlamento europeo (Movimento 5 Stelle)

Poco più di trent’anni fa, la disgregazione della Jugoslavia finì per scuotere a tal punto l’Europa da farle prendere finalmente coscienza della necessità di adattarsi alle nuove sfide emergenti alla sua sicurezza e alla sua stabilità, al fine di soddisfare l’ambizione di assurgere al ruolo di attore attore geopolitico credibile. Era imprescindibile impedire che la sua incapacità di promuovere pace e ordine in un conflitto nel proprio vicinato diventasse un tratto distintivo consolidato dell’Unione sulla scena mondiale.

In un’Unione europea di cui l’Italia e l’Austria rappresentavano, in quei difficili anni, il fianco più orientale, i Balcani costituivano allora il vicinato più prossimo. Il tumultuoso allargamento avvenuto negli anni seguenti ha portato nuovi confini e un nuovo vicinato che, in questo momento, è letteralmente in fiamme. Il conflitto nell’Ucraina orientale è ancora ben lontano da una soluzione diplomatica definitiva, mentre la Bielorussia è alle prese con un complesso stallo politico che potrebbe finire per determinare il suo destino per i decenni a venire.

La deflagrazione della guerra tra Azerbaigian e Armenia in Nagorno-Karabakh è solo l’ultima minaccia alla sicurezza nel nostro vicinato. Ma potrebbe, molto presto, diventare anche la più pericolosa.

Molti osservatori non comprendono ancora la reale portata del problema, scegliendo di derubricarlo a una semplice “ripresa delle ostilità”, l’ennesima, destinata in ogni caso a chiudersi a breve. Tuttavia, non può non notarsi che mentre i combattimenti sul terreno entrano nel loro secondo mese, abbiamo già assistito al fallimento di ben tre tregue umanitarie, negoziate da Stati Uniti, Francia e Russia, ciascuna della durata di non più di pochi minuti, e alla conseguente impossibilità di arginare la violenza.

In quest’ultimo episodio del conflitto è possibile osservare diverse dinamiche, alcune vecchie e altre decisamente nuove.

Come in passato, lo scontro è caratterizzato da una guerra d’informazione, con narrative contrastanti, e talvolta del tutto antitetiche, sulle dinamiche dei fatti, sulle vittime e persino sui luoghi coinvolti, il che rende in alcuni casi piuttosto difficile attribuire colpe e responsabilità inconfutabili a una delle due parti.

Tuttavia, alcune ulteriori considerazioni sono d’obbligo. La prima, e la più importante, è che l’Armenia non aveva oggettivamente alcun interesse ad avviare o persino a provocare un’azione militare di tale portata, principalmente perché lo status quo consolidatosi era decisamente più accettabile per Erevan che per Baku. Un secondo elemento è la netta asimmetria nella spesa militare tra i due Paesi negli ultimi anni: l’Azerbaigian ha investito nelle sue forze armate un budget di diverse volte superiore rispetto alla spesa corrispettiva operata dall’Armenia. Svantaggiata dal ben diverso ammontare della spesa in armamenti e, di conseguenza, dal potenziale militare, l’Armenia era evidentemente più interessata a mantenere il proprio impegno nei negoziati in corso nel quadro del Gruppo di Minsk dell’Osce.

Ciò che è nuovo ed estremamente preoccupante, rispetto al passato, è l’aperto e consistente sostegno della Turchia all’Azerbaigian, tanto diplomatico quanto militare.

Le numerose prove che attestano il probabile reclutamento e trasferimento di mercenari jihadisti siriani attraverso la Turchia in Azerbaigian, prima dell’offensiva del 27 settembre, non sono solo uno sviluppo pericoloso in sé, ma potrebbero anche dimostrare la premeditazione dell’azione militare medesima. Diverse testate giornalistiche internazionali stavano indagando proprio su queste notizie nelle settimane precedenti all’inizio delle ostilità: le dichiarazioni del presidente francese Emmanuel Macron sulla questione forniscono un ulteriore contributo alla veridicità di tali resoconti.

Le opinioni degli esperti, insieme alle dichiarazioni ai massimi livelli provenienti da diverse capitali, sono quasi unanimi su chi per primo abbia premuto il grilletto nell’ultima escalation. A mio parere ci sono indizi evidenti, quantomeno circostanziali, del fatto che l’Azerbaigian possa ben dirsi la parte più interessata all’inizio e al protrarsi delle ostilità nel tentativo di cambiare a suo favore la situazione sul campo manu militari, piuttosto che attraverso sforzi di composizione pacifica.

Ma indipendentemente dal difficile esercizio di attribuzione delle colpe, mentre gli scontri continuano, il conflitto si sta rapidamente trasformando in un vero e proprio disastro umanitario. I ripetuti bombardamenti di Stepanakert e di decine di città e villaggi del Nagorno-Karabakh, inevitabilmente seguiti da ritorsioni operate dall’altro campo, hanno già visto decine di migliaia di sfollati, più di un centinaio di civili e migliaia di soldati uccisi da entrambe le parti. Amnesty International e Human Rights Watch hanno anche confermato l’uso di bombe a grappolo da parte dell’Azerbaigian su obiettivi civili, pratica vietata dal diritto internazionale umanitario. Dati i livelli di violenza collettiva a cui si è assistito durante la prima guerra del Nagorno-Karabakh nel 1991-94, non ci possono essere dubbi sul potenziale disastroso della guerra in corso se non si trovano soluzioni immediate per una de-escalation.

La risposta dell’Unione europea è stata finora piuttosto debole e priva, di fatto, della sua dichiarata ambizione di essere un attore geopolitico rilevante e un game-changer per la stabilità, la sicurezza e la prosperità nel proprio vicinato. Pur chiedendo ufficialmente un cessate il fuoco immediato e un ritorno ai colloqui di pace, l’Unione europea ha esitato ad attribuire responsabilità chiare per l’offensiva ed è stata eccessivamente cauta nel nominare la Turchia come sponsor di questa escalation.

Questo è il primo aspetto che deve cambiare nel nostro approccio, se vogliamo che la voce dell’Unione europea sia efficace. L’Alto rappresentante Josep Borrell sta impiegando il suo peso politico negli sforzi per la mediazione tra le parti, in una situazione estremamente difficile, e a lui va la mia solidarietà. Tuttavia, non cessano i messaggi europei ascrivibili al concetto di “ambiguità costruttiva”, richiami che invitano entrambe le parti a fermare i combattimenti, in un contesto in cui gli indizi su chi dovrebbe essere considerato l’aggressore sono piuttosto chiari. L’ambiguità costruttiva non contribuisce a generare una deterrenza necessaria perché l’aggressore sia effettivamente spinto a sedersi nuovamente al tavolo delle trattative. È altrettanto necessario, poi, esercitare una pressione molto più incisiva per convincere la Turchia ad astenersi dall’aggravare ulteriormente la situazione visto che, dopotutto, la Turchia è ancora, perlomeno sulla carta, un candidato all’adesione all’Unione europea e ufficialmente un membro della Nato. Purtroppo, sull’eccessiva prudenza, per non dire titubanza e incoerenza, che hanno caratterizzato le politiche europee degli ultimi anni verso Ankara si potrebbero scrivere fiumi d’inchiostro.

Per quanto riguarda il più ampio contesto della composizione pacifica del conflitto, l’Unione europea deve essere pronta a svolgere un ruolo più ampio e decisivo nei colloqui di pace dell’Osce, promuovendo soluzioni che abbiano impatto significativo. Una volta raggiunto un vero accordo di cessate il fuoco, la massima priorità dovrà essere quella di implementare finalmente un meccanismo obbligatorio e permanente di monitoraggio del cessate il fuoco stesso. La capacità di monitorare in maniera indipendente la linea di contatto fungerà non solo da disincentivo per le violazioni, ma servirà anche ad attribuire colpe inconfutabili in caso di eventuali trasgressioni.

L’Armenia, insieme ai co-presidenti del Gruppo di Minsk dell’Osce, vale a dire Francia, Stati Uniti e Russia, ne chiede l’attuazione dal 2015 e, in linea di massima, è favorevole a una missione di osservatori permanenti con ampia autonomia d’azione. Finora, l’Azerbaigian si è opposto duramente a tale approccio: l’Unione europea dovrebbe lavorare attivamente per spingere Baku a impegnarsi ufficialmente ad accettare, e a implementare, queste proposte.

Al di là dei disaccordi sul mandato operativo di questo meccanismo, anche la composizione degli attori terzi che ne faranno parte si preannuncia problematica. L’Unione europea e i suoi Stati membri dovrebbero collaborare per offrire del personale dedicato: oltre a determinare un passo importante per la pace e a contribuire alla fiducia delle parti belligeranti nella possibilità concreta di una soluzione negoziata, un tale coinvolgimento costituirebbe anche la prova concreta della volontà dell’Unione di svolgere realmente il ruolo di mediatore onesto e imparziale che la sua storia e i suoi valori le impongono di ricoprire.

In un momento in cui la Commissione dichiara di voler far assumere all’Unione europea una postura “geostrategica”, in cui il Consiglio intraprende misure per garantire una vera e propria “autonomia strategica europea” e l’Alto rappresentante, dal canto suo, continua a sostenere la necessità che le decisioni in materia di Politica estera e di sicurezza comune (Pesc) vengano finalmente prese attraverso votazioni a maggioranza qualificata, superando le forche caudine dell’unanimità, è imperativo agire in modo più assertivo, visto che uno dei conflitti più sanguinosi degli anni Novanta è deflagrato nuovamente.

È tempo che l’Unione europea si faccia trovare pronta e all’altezza della sfida, dinnanzi al suo secondo momento balcanico.



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