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Biden, il centrodestra e il Quirinale. L’analisi di Paolo Alli

Salvini dovrebbe scegliere la linea moderata invocata da Giorgetti per evitare di lasciare un’autostrada aperta al centro, che potrebbe perfino produrre una variegata aggregazione tra Berlusconi, Renzi e Calenda. La posta in palio? Il Quirinale. L’intervento di Paolo Alli, presidente di Alternativa Popolare, già presidente dell’Assemblea parlamentare della Nato

Le elezioni Usa, sconfitta di Donald Trump prima che vittoria di Joe Biden, ci restituiscono una società americana spaccata in una serie di fratture probabilmente senza precedenti tra classi, territori, gruppi etnici, generi, religioni, culture. La presidenza Trump ha certamente esacerbato contrasti esistenti da sempre dentro la società statunitense, cercando costantemente la contrapposizione frontale, in una campagna elettorale permanente durata quattro anni. Il Paese appare ripiegato sulle proprie contraddizioni interne, che rischiano di minarne, agli occhi del resto del mondo, la statura morale e l’autorevolezza.

In questo contesto di incertezza sul futuro, quasi tutti gli osservatori concordano sul fatto che la presidenza Biden sarà meno ostile al rapporto con l’Europa, sia in termini politici che commerciali, e questo non potrà che giovare al vecchio continente.

La sconfitta di Trump, inoltre, non segnerà di certo la sconfitta di pulsioni populiste in Europa, ma rappresenterà comunque una brusca battuta d’arresto sulla strada del rafforzamento di quella specie di internazionale sovranista, che vedeva proprio nel tycoon il suo leader naturale. In questo senso va lettala reazione scomposta di Polonia e Ungheria, che minacciano il veto al bilancio Ue, in una dinamica che non può non avere conseguenze anche sulla nostra politica nazionale.

Silvio Berlusconi, come sempre ispirato da Gianni Letta, dà segnali di apertura ad una collaborazione istituzionale, capitalizzando la propria posizione che, in quattro anni, non ha mai dimostrato aperte simpatie trumpiane, al contrario di Giorgia Meloni e, soprattutto, di Matteo Salvini, definito addirittura – seppure ingenerosamente – majorette di Trump. Gli eccessivi sbilanciamenti dei due leader del populismo italiano sono un pessimo biglietto da visita nei confronti della nuova amministrazione americana, che già nutre motivate diffidenze verso Giuseppi Conte e l’intera banda a 5 stelle (peraltro – se ci è permesso un filo di ironia – sempre un decimo di quelle della bandiera Usa). Né potrà servire troppo la mediazione di un Partito democratico che ha rinunciato a tutti i propri principi in cambio di comode poltrone.

La battaglia non è finita, non certo perché ci si possa aspettare un improbabile ribaltamento del verdetto, ma perché la vera partita si gioca il 5 gennaio con i ballottaggi in Georgia, che determineranno il controllo del Senato. Con la Camera dei rappresentanti saldamente in mano ai democratici, un Senato a controllo democratico metterebbe nelle mani di Biden un grande potere ma lascerebbe via libera alla sinistra interna per alzare le proprie pretese.

Viceversa, un Senato a maggioranza repubblicana consentirebbe una doppia operazione che potrebbe spostare la politica americana verso il centro. Un Biden costretto a cercare l’accordo con i repubblicani al Senato potrebbe molto più facilmente limitare le ambizioni della sinistra democratica; al tempo stesso, la parte moderata dei repubblicani potrebbe avere buon gioco nello spazzare via definitivamente ogni reminiscenza trumpiana, spostando l’asse del partito verso un’area politica centrista e moderata.

Non si può escludere che Biden speri proprio nella una vittoria repubblicana ai ballottaggi in Georgia, che farebbe comodo anche a Berlusconi e ai centristi italiani, mentre, paradossalmente, il fronte sovranista Meloni-Salvini dovrebbe sperare in una vittoria dei democratici, per poter rialzare la posta contro il nemico di sinistra.

Comunque vada la parte finale della competizione elettorale negli Usa, la Lega dovrà rivedere la propria strategia, se non vorrà essere schiacciata tra il rinnovato protagonismo di Berlusconi e l’arrembante destra meloniana.

Basterà quella specie di predellino 2.0 costituito dalla proposta di federazione lanciata nei giorni scorsi da Salvini? Difficile. In realtà il leader leghista dovrebbe intraprendere con decisione la linea moderata invocata da tempo da Giancarlo Giorgetti, se vorrà evitare di lasciare un’autostrada aperta al centro, che potrebbe addirittura produrre una variegata aggregazione tra Berlusconi, Matteo Renzi e persino Carlo Calenda.

Fantapolitica? Forse, ma la posta in palio è molto alta. La presidenza della Repubblica.



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