Lanciato oggi il progetto di cloud europeo Gaia-X con 159 aziende. Italia al terzo posto per imprese partecipanti, dopo Germania e Francia. Ma dagli Usa qualcuno solleva dubbi e avverte: il sovranismo europeo dei dati rischia di allontanare gli investimenti?
Secondo le stime della Commissione europea, nel 2025 l’economia dei dati dovrebbe valere 829 miliardi di dollari (quasi il triplo rispetto ai 301 del 2018). Il numero di professionisti del settore è destinato a raddoppiare a breve: erano 5,7 milioni nel 2018, se ne prefigurano 10,9 nel 2025. A guidare la rivoluzione è il volume di dati al mondo: dai 33 zettabyte del 2018 ai 175 attesi per il 2025, un aumento del 530%.
LE MANI SUI DATI
Ma chi gestirà quei dati? Se gli Stati Uniti hanno aziende leader al mondo (pensiamo ad Amazon, a Microsoft, a Google) e in Cina a dominare è Alibaba, in Europa invece? Per rispondere all’assenza di un campione europeo, Francia e Germania si sono fatte promotrici di Gaia-X, il progetto di cloud lanciato oggi con un evento (che proseguirà anche domani) a cui hanno preso e prenderanno parte, tra gli altri, i ministri francese e tedesco dell’Economia (Bruno Le Marie e Peter Altmaier) e la ministra italiana dell’Innovazione Paola Pisano.
LE 159 AZIENDE
Dopo la presentazione a giugno con 22 fondatori, oggi il lancio ufficiale, durante il quale l’amministratore designato Hubert Tardieu ha spiegato che Gaia-X può contare su 159 aziende. Tra questi, oltre ai colossi sopracitati Amazon, Microsoft, Google e Alibaba, anche la cinese Huawei e la svedese Ericsson, protagoniste del 5G. Il primo Paese “contributore” è la Germania con 49 aziende, seguita dalla Francia con 33. L’Italia è terza, con 29 imprese. Nell’elenco figurano anche Eni, Enel, Poste Italiane, Tim (che ha da poco firmato un accordo con la francese Atos, una delle fondatrice del progetto), Leonardo, Aruba, Retelit, Confindustria digitale, Cy4Gate e Intesa San Paolo.
IL POTENZIALE EUROPEO
“L’approccio aperto, trasparente e orientato all’ecosistema del progetto Gaia-X ha il potenziale per dare all’Unione europea un nuovo ruolo nell’economia globale dei dati”, ha commentato Lise Fuhr, direttore generale della European Telecommunications Network Operators’ Association. Dobbiamo tendere alla leadership, in modo da poter offrire più scelta europea nei mercati digitali”.
I DUBBI STATUNITENSI
Ma negli Stati Uniti già si registra qualche mugugno. È sufficiente sfogliare un rapporto per il Center for strategic & international studies di Meredith Broadbent, già a capo della U.S. International Trade Commission (repubblicana nominata in quel ruolo dal presidente democratico Barack Obama). L’esperta analizza le prime proposte europee di Digital service act e Digital market act, cioè gli sforzi dei commissari Margrethe Vestager e Thierry Breton. Sottolinea come che ci siano “poche prove empiriche” che il nuovo assetto digitale della Commissione europea possa risultare “efficace nel raggiungere l’obiettivo europeo di costruire una ‘sovranità tecnologica’”. Il pacchetto Digital Services Act rischia, addirittura, di “sopprimere l’innovazione in Europa”, si legge nel rapporto. Che cita, per esempio, il caso di Amazon, che dal 2010 ha già investito 55 miliardi di euro in Europa, ha assunto 115.000 dipendenti a tempo indeterminato e ha creato 200.000 posti di lavoro. Inoltre, Broadbent lascia emergere altri due temi: da una parte il rischio di restrizioni sui colossi statunitensi — e non sulle società cinesi come Alibaba, WeChat e Tencent (che, scrive, “saranno apparentemente libere di perseguire i loro obiettivi di business in Europa”); dall’altra la possibilità di nuove tensioni commerciali al Wto tra Stati Uniti e Unione europea, dopo i casi Boeing-Airbus e digital tax, soltanto per citare due tempi (“un simile assalto complicherebbe ulteriormente le relazioni economiche transatlantiche, che valgono 7 trilioni di dollari”). In attesa delle decisioni finali di Bruxelles, Broadbent conclude scrivendo: “Il nostro obiettivo in questo documento è discutere di quanto ambiziosa la Commissione aspiri a essere nell’ambito della sua portata normativa e di quanto queste politiche potrebbero rivelarsi senza precedenti e controproducenti”. D’altronde, il sottotitolo del rapporto era già chiarissimo: “Le iniziative europee per ostacolare le aziende tecnologiche statunitensi”.