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Che fine hanno fatto gli investimenti pubblici? La riflessione di Pennisi

Che fine ha fatto il programma di investimenti proposto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte? Ed il piano shock che secondo il senatore Matteo Renzi sarebbe stato una condizione per Italia Viva di restare al governo? La riflessione di Giuseppe Pennisi

In Italia non ha quasi avuto eco il Fiscal Monitor pubblicato dal Fondo monetario internazionale (Fmi) a metà ottobre. Un documento importante in quanto a differenza di altri lavori del Fmi pone l’accento sulle politiche per la ripresa dalla grande recessione causata dalla pandemia.

“Si tratta di una rapporto tempestivo e importante”, ha commentato il maggior istituto austriaco di ricerca economica. “Il Fmi lo presenta al momento giusto per sottolineare l’importanza degli investimenti pubblici per la ripresa economica. Naturalmente, gli economisti di influenza keynesiana hanno sempre conosciuto e sottolineato l’importanza degli investimenti pubblici, sia per motivi di stabilizzazione, ma anche per lo sviluppo a lungo termine dell’economia. Tuttavia, per lungo tempo l’economia tradizionale, compreso il Fmi, ha sottovalutato questo importante ruolo. Regole, come il Patto di stabilità e crescita dell’Ue con freni del debito giuridicamente vincolanti, ma anche misure di austerità in altri Paesi, hanno limitato la spesa pubblica negli ultimi decenni. I programmi di aggiustamento del Fmi hanno inoltre chiesto di ridurre la spesa pubblica. Sappiamo tutti che durante i programmi di austerità, tagliare gli investimenti pubblici è politicamente più facile che togliere agli interessi acquisiti”.

Il documento distingue tre fasi della ripresa, ognuna con indicazioni distinte per gli investimenti pubblici:

A) durante il great lockdown sono necessarie misure immediate di sostegno ai redditi ed alle imprese , ma occorre continuare gli investimenti pubblici per i progetti in fase di attuazione

B) durante la seconda fase di riapertura parziale, vengono adottate misure di stimolo a sostegno della domanda ed il Fmi propone di potenziare la manutenzione del capitale sociale fisico di rivalutare le priorità e preparare una pipeline di progetti per

C) la fase post-pandemica. In questa fase il rapporto sottolinea che l’investimento pubblico soddisfi le esigenze infrastrutturali e sostenga il raggiungimento degli obiettivi di sviluppo Sostenibile (Sdg).

Come si situa l’Italia rispetto a queste linee di indirizzo? Tra il 2010 e il 2019 l’Italia ha registrato un processo di indebolimento della dinamica di accumulazione del capitale con un vero e proprio crollo degli investimenti pubblici. È quanto emerge dal documento presentato dall’Istat nell’audizione alla commissione Bilancio della Camera sull’utilizzo delle risorse del Resilience and Recovery Fund (Rrf) Nel 2019 la spesa complessiva per investimenti, valutata a prezzi correnti, è stata pari a 322,7 miliardi di euro, lo stesso livello del 2010 (322,6 miliardi).

“Tuttavia, al suo interno, gli investimenti delle amministrazioni pubbliche sono diminuiti nel periodo del 18,9%, mentre quelli del settore privato (che includono anche le unità a controllo pubblico non classificate nel settore delle Amministrazioni pubbliche) sono aumentati del 3,5%. Se rapportata al Pil, dal 2008 al 2019 la quota di investimenti pubblici italiani è scesa di circa un punto percentuale (da 3,2% a 2,3%) attestandosi su un livello inferiore di quello dell’area euro (pari al 2,8% nel 2019). Il maggior contributo al calo degli investimenti pubblici – si legge – è venuto dalle amministrazioni locali, con una riduzione tra il 2010 e il 2019 del 26,5%, mentre per le amministrazioni centrali e gli enti di previdenza la contrazione è stata più contenuta (-6,6%)”.

Per l’Istat l’evoluzione del sistema produttivo italiano è caratterizzata “da una fase prolungata di bassa crescita della produttività, con conseguenze rilevanti sugli attuali livelli di sviluppo economico e sulle prospettive future”. E “sebbene la fase di bassa produttività italiana si estenda a partire dagli anni novanta dalla crisi del 2009 ad oggi il divario di crescita della produttività italiana rispetto ai principali paesi europei, misurato dal valore del Pil per ora lavorata, si è ulteriormente ampliato. Nel 2019, la produttività del lavoro italiana ha registrato un incremento pari a 1,2 punti percentuali rispetto al valore del 2010, a fronte di un incremento medio di circa 8 punti percentuali di Germania, Francia e Spagna”.

Accanto alla strutturale debolezza della produttività totale dei fattori “dal 2014 si è aggiunta la decisa contrazione del processo di accumulazione del capitale. La spesa per investimenti ha presentato nel corso dell’ultimo decennio uno sviluppo poco favorevole con un andamento, grosso modo, analogo a quello generale dell’attività economica”.

Che fine ha fatto il programma di investimenti proposto dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte? Ed il piano shock che secondo il senatore Matteo Renzi sarebbe stato una condizione per Italia Viva di restare al governo? C’è di peggio. Pullulano le proposte per utilizzare il Rrf per motivi assistenziali e per ridurre le tasse, nonostante Bruxelles abbia ripetutamente fatto sapere che ciò sarebbe contrario ai principi stessi del Rrf.

Si legga il bel libro L’interregno di Gustavo Piga per vedere la strada dove andare.


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