Con la nomina di Kerry a inviato speciale presidenziale sul clima, il presidente eletto ha inviato un segnale chiarissimo all’America, al mondo, all’economia, alla società. Il commento di Ermete Realacci, presidente della Fondazione Symbola
Joe Biden, con la nomina di John Kerry a inviato speciale presidenziale per il clima e con il ruolo a lui assegnato nella nuova amministrazione, ha inviato un segnale chiarissimo all’America, al mondo, all’economia, alla società. Lo stesso Biden aveva del resto preso come primo impegno, quando era apparsa chiara la vittoria, di far rientrare gli Stati Uniti negli accordi sottoscritti alla COP21 di Parigi nel 2015. E durante la sua campagna presidenziale ha più volte detto di considerare le politiche contro la crisi climatica come una chiave per rilanciare l’economia e l’occupazione. Non si tratta dunque solo di sanare uno dei tanti strappi prodotti da Trump.
Ricordo bene il ruolo importante svolto dall’amministrazione Obama, rappresentata per tutta la durata del negoziato dal segretario di Stato Kerry, nel raggiungere gli accordi di Parigi. Insieme alla determinazione dell’Europa, guidata dalla diplomazia francese, al cambiamento di atteggiamento della Cina, alla spinta che veniva dalla società e in particolare dall’influenza dell’enciclica Laudato Si di papa Francesco. Lo stesso Kerry si è affrettato a dichiarare che si può oggi andare oltre Parigi. Molte cose sono infatti cambiate in questi anni.
Non è solo cresciuta la sensibilità sul tema per effetto dell’emergere dei mutamenti in atto e per la mobilitazione della società e in particolare della generazione Greta. È soprattutto in corso un cambiamento di una parte importante dell’economia, con una velocità talvolta imprevista e spiazzante per la politica. Pensiamo ad esempio a due dei feticci principali della precedente, vittoriosa, campagna presidenziale di Trump: il muro con il Messico e il rilancio del carbone americano. Proprio il rilancio dei combustibili fossili di casa e in particolare del carbone erano la motivazione dell’abbandono degli accordi di Parigi.
È facile trovare sulla rete comizi di allora con Donald Trump che parla e centinaia di sostenitori che alzano cartelli con scritto Trump digs coal (Trump scava carbone). L’amministrazione Trump ha poi preso misure pro-fossili, ma il consumo di carbone è calato. Hanno chiuso 50 centrali e nel giugno scorso tutti i nuovi impianti di produzione di energia elettrica, in tutti gli Stati erano alimentati da fonti rinnovabili.
Perché anche un governatore repubblicano se un impianto eolico costa meno non compra il carbone degli Appalachi. Quello slogan forse era vincente nella propaganda ma perdente nell’economia. Senza sottovalutare né le difficoltà né i conflitti, la prospettiva di un’economia più a misura d’uomo che affronti con coraggio la crisi climatica, senza lasciare indietro nessuno, appare oggi molto più capace di affrontare il futuro rendendo le nostre imprese più competitive. È la scelta fatta con forza dall’Europa anche per affrontare la pandemia con il Next Generation EU, che destina risorse senza precedenti in particolare alla transizione verde. Un’occasione che l’Italia non può assolutamente sprecare.
Ritengo molto probabile che l’America possa presto affiancarci nell’obiettivo, ambizioso ma praticabile, di azzerare entro il 2050 le emissioni nette di CO2. Una necessità per affrontare i pericoli che abbiamo davanti ma anche una grande sfida, una grande avventura per l’umanità. Che sia in campo anche un grande Paese come gli Stati Uniti è di buon auspicio. E John Kerry è anche un buon amico di Paolo Gentiloni, che in Europa svolge un importante ruolo proprio sul Next Generation. Non è risolutivo ma non guasta…