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Cosa c’è dietro lo scontro Cina-Usa sugli uiguri

Da alcune imprese americane del mondo della tecnologia, tra cui il colosso Apple, potrebbero essere partite pressioni per “ammorbidire” la nuova legge contro l’uso di lavoro forzato della comunità uigura a Xinjiang, Cina. Ma anche pezzi fondamentali per creare gli strumenti di sorveglianza. Le inchieste del Washington Post e del New York Times

C’è resistenza all’interno di Apple verso il progetto di legge contro il lavoro forzato, che imporrebbe nuovi impegni alle imprese americane nella catena di rifornimenti? Sembrerebbe di sì. La multinazionale è accusata da alcuni membri dello staff del Congresso americano di esercitare pressione per cercare di ammorbidire la normativa, che ha come obiettivo porre fine all’uso di prodotti che arrivano dalla regione cinese dello Xinjiang, dove Pechino avrebbe imposto una campagna contro i musulmani uiguri, costretti a essere rinchiusi in campi di rieducazione e subire lavori forzati.

Secondo un reportage pubblicato dal Washington Post, fonti del Congresso – che hanno preferito restare anonime – sostengono che Apple cerca di indebolire le disposizioni di quel progetto di legge. L’azienda di Cupertino avrebbe arruolato lobbisti per influire su questa legislazione, creando un conflitto tra gli interessi operativi e commerciali e il rispetto dei diritti umani.

La legge di prevenzione del lavoro forzato uiguro alla quale si fa riferimento è stata approvata al Congresso a settembre e ora è arrivata al Senato. Il provvedimento prevede l’obbligo da parte delle imprese di garantire che non sia sfruttato il servizio di lavoratori arrestati o costretti al lavoro nella regione prevalentemente musulmana di Xinjiang. Alcune ricerche sostengono che il governo cinese ha costretto a campi di concentramento circa un milione di persone.

Il nodo (uno dei tanti) è che Apple dipende largamente dalla fabbricazione cinese per la propria produzione. E alcune indagini sui diritti umani hanno identificato l’utilizzo di presunti prodotti uiguri nella catena di rifornimenti.

Sebbene l’amministratore delegato di Apple, Tim Cook, ha dichiarato a luglio in un’udienza al Congresso che “il lavoro forzato è abominevole” e che tale pratica non è tollerabile ad Apple, per cui avrebbero tagliato con qualsiasi fornitore che ne fa uso, la compagnia sarebbe nella lista delle imprese americane che si oppongono alla legge com’è scritta ora.

Le fonti non hanno svelato dettagli sulle parti specifiche che Apple vorrebbe cambiare, ma hanno spiegato che si tratta di un tentativo di alleggerire la norma.

Cathy Feingold, direttore del Dipartimento internazionale di AFL-CIO, che ha approvato la legge, ha detto al Washington Post che “a Apple piacerebbe che tutti ci sedessimo a parlarne, ma senza un effetto reale”, cosa che invece sta per accadere ora con l’applicazione della legge.

Apple impone condizioni rigorose ai fornitori, che confermano il divieto dell’uso di lavoro forzato, ma la produzione è molto complessa e allargata, per cui sono difficili gli accertamenti. Infatti, a marzo due fornitori di Apple sono stati coinvolti nello sfruttamento di lavoro punitivo a Xinjiang, e ad agosto si è verificato il reato su un’altra impresa cinese che lavorava per il personale della multinazionale.

Il progetto di legge chiederà invece alle imprese pubbliche, certificate alla Commissione di Borsa e Valori, che i propri prodotti non siano fabbricati con lavoro forzoso a Xinjiang. Nel caso di inosservanza della norma, le imprese potrebbero essere processate per violazioni di valori.

Ma la questione del lavoro forzato sull’etnia urumqi coinvolgerebbe non solo Apple. Perché il sistema di sorveglianza di questa comunità, vittima della pratica punitiva cinese, si reggerebbe su processori centrali di fabbricazione americana.

I movimenti e spostamenti dei urumqi sarebbero tracciati dal governo di Pechino, anche se la versione ufficiale è che la videosorveglianza aiuta a prevenire la criminalità in una regione particolarmente violenta. Tuttavia, un’indagine del The New York Times sostiene che dal 2015 le autorità cinesi hanno costruito un potente data center a Xinjiang. I super-computer avrebbero pezzi di Intel e NVIDIA, anche se da tempo il rifornimento per vie ufficiali è bloccato. Sarebbe appaltatore Sugon, sanzionato dagli Stati Uniti nel 2019.

I funzionari di NVIDIA hanno confermato al Nyt di aver collaborato con Sugon a un progetto di infrastruttura per città intelligenti nel 2015, ma dicono di non essere in grado di conoscere lo sviluppo (e utilizzo) finale del data center in fase di sviluppo. Intel fornisce ancora a Sugon i suoi processori di base. Certo è, dunque, che i sistemi di controllo e intelligenze cinesi dipendono ancora da componenti fabbricati altrove.

Jason Matheny, direttore fondatore del Center for Security and Emerging Technology della Georgetown University, ed ex funzionario dell’intelligence statunitense, ha dichiarato al Nyt che “il governo e l’industria devono essere più attenti ora che le tecnologie stanno avanzando, al punto in cui si potrebbe fare la sorveglianza in tempo reale utilizzando un singolo super-computer su milioni di persone potenzialmente”. La chiave, forse, è nella catena di rifornimento di pezzi fondamentali per gli strumenti di controllo.

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