Oggi è tardi per riparare quello che accadde il 23 novembre 1980 e anche dopo. È andata così. Ma il tema sono i fondi della mitica legge 219. Che ora dovrebbe essere robustamente rifinanziata per la ricostruzione e la messa in sicurezza degli edifici che nel 1980 furono giudicati agibili, e adesso non lo sono più. L’intervento di Gianfranco Rotondi
Quaranta anni: nella storia non sono poi tanti, nella vita di una comunità sì. Nella vita delle persone sono la loro vita. Il terremoto ti colpisce ma soprattutto ti definisce: resti terremotato per tutta la vita, anche quando la casa non ti è caduta addosso.
Ho sessanta anni e ne avevo venti quando avvenne il terremoto. Sui social leggo che i superstiti raccontano quel momento, e lo faccio anche io: ero nel circolo della Stampa di Avellino, situato nel palazzo di quella prefettura che crolló e mise in fuga il prefetto (poi subito rimosso da Pertini).Uscii di corsa anche io, dopo aver visto volare in aria i quadri esposti nel Circolo. Mi lasciai alle spalle il palazzo che cedeva, e feci in tempo a veder crollare gli ultimi piani di un edificio affacciato sul corso della città. Mi fermai in piazza, e lì rimasi fino a tarda ora, non esistevano telefonini, la famiglia ci mise un po’ a ritrovarsi.
Storie comuni di terremoto. Fu subito chiara la proporzione della tragedia, i giorni successivi portarono solo il conto esatto dei morti. Scrivo ora in treno e sto scendendo verso Sant’Angelo dei Lombardi, dove alle diciannove e trenta assisterò alla messa in suffragio dei tremila morti di quel 23 novembre, una data che – fuor di retorica -divise in due anche la vita dei sopravvissuti.
Chi legge non può capire cosa significa perdere la propria città: non solo le persone scomparse, ma anche i luoghi, la casa dei nonni, la tua strada, il mercato, la scuola, tutti i ricordi. Certo, la ricostruzione in parte è avvenuta: ma sono paesi nuovi, vagamente echeggianti le atmosfere di prima. E non c’è stata la contropartita dello sviluppo, promessa a voci unanimi dalle classi politiche, imprenditoriali e intellettuali del tempo.
È tardi per riparare, è presto per una ricostruzione storica veritiera, men che meno probabile in questa giornata commemorativa. Reca un contributo di verità la testimonianza di Settimo Gottardo, che indagó con Scalfaro sulla gestione del terremoto: egli dice che la ricostruzione in Irpinia procedette su binari corretti e soddisfacenti, ma pagó la pretesa dei comunisti di inserire Napoli nel cosiddetto “cratere” del terremoto, con conseguenti vantaggi finanziari e di investimento.
È andata così. Lo sviluppo del Mezzogiorno e delle aree interne resta un tema per dibattiti culturali. E del resto era un po’ ingenuo credere che una calamità potesse portare una catarsi.
Piuttosto il ricordo della calamità dovrebbe risvegliare le coscienze della parte più consapevole della classe dirigente. Studi attendibili attribuiscono pochi anni di vita agli edifici di scarsa qualità realizzati in cemento negli anni Cinquanta e Sessanta: pochi anni di vita significa che a un certo punto cadranno da soli, senza bisogno di terremoti. L’area colpita dal sisma del 1980 è piena di quegli edifici, a cominciare dalla città di Avellino. Quel 23 novembre essi non sono caduti perché ancora abbastanza armati dalla residua presenza di ferro nel cemento. Da quanto tempo non vengono sottoposti a controlli?
Questo è il tema dell’avvenire. Residuano ancora fondi provenienti dalla mitica legge 219, e ogni tanto qualcuno si scandalizza di questo. Io mi scandalizzerei del contrario, e cioè del fatto che la 219 non venga robustamente rifinanziata per la ricostruzione e la messa in sicurezza degli edifici che nel 1980 furono giudicati agibili, e oggi non lo sono più.