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F-35 e droni. Ecco il maxi deal di Trump con gli Emirati

Vale oltre 23 miliardi di dollari il deal degli Stati Uniti con gli Emirati Arabi in campo militare. Conferma per la “F-35 diplomacy”, nonché per l’interesse di Trump a chiudere entro la fine dell’anno. Servirà però il via libera del Congresso, e intanto l’amministrazione uscente perde un altro pezzo dopo Mark Esper

Vuole chiudere in grande stile le vendite militari all’estero l’amministrazione di Donald Trump. Il dipartimento di Stato guidato da Mike Pompeo ha notificato al Congresso un maxi deal con gli Emirati Arabi del valore di oltre 23 miliardi di dollari. Riguarda prima di tutto gli F-35 su cui Washington è riuscita a superare l’opposizione di Israele. Ora però il nodo da sciogliere è sul fronte interno, precisamente a Capitol Hill dove le Camere dovranno approvare l’accordo. E intanto dal Pentagono esce anche il numero tre, il sottosegretario James Anderson.

LA NOTIFICA

Le indiscrezioni dell’ultima settimana parlavano di 10 miliardi per una cinquantina di velivoli di quinta generazione realizzati da Lockheed Martin. Poi si è aggiunta notizia di ulteriori 2,9 miliardi per 18 droni armati MQ-9B (di cui tre in opzione), realizzati dalla General Atomics MQ-9B, con consegna prevista nel 2024. L’intesa complessiva vale ben 23,37 miliardi di dollari secondo il segretario di Stato Mike Pompeo, che ha annunciato via Twitter la notifica al Congresso del maxi deal. Oltre agli F-35 e i Reaper ci sarebbero ulteriori “munizioni”, probabilmente anche i servizi di supporto e pezzi di ricambio. Serviranno a “esercitare deterrenza e difesa contro l’accresciuta minaccia dell’Iran”, ha spiegato Pompeo, ricordando altresì il legame del deal con gli Accordi di Abramo.

GLI INTERESSI DI ABU DHABI

L’interessi emiratino per gli F-35 è noto da tempo. Il velivolo permetterebbe all’aeronautica nazionale un salto di qualità non indifferente, certificando altresì l’ambizione di voler incidere sugli equilibri regionali. Per gli Stati Uniti, oltre al valore commerciale non indifferente, la vendita permetterebbe il rafforzamento del legame con Abu Dhabi in chiave anti-iraniana. Confermerebbe inoltre il valore fortemente geopolitico del velivolo di quinta generazione, ormai vero strumento di politica estera con la cosiddetta “F-35 Diplomacy”.

IL RUOLO DI ISRAELE

Gli equilibri mediorientali sono però complicati. A opporsi all’ipotesi di vendita è stata da subito Israele. Nelle ultime settimane, l’opposizione si è però attenuata grazie proprio agli Accordi di Abramo e, soprattutto, dalle importanti garanzie americane sulla preservazione del “qualitative military edge” israeliano, cioè del vantaggio tecnologico militare che il Paese vanta nella regione. Garanzie che sono arrivate a Benjamin Netanyahu direttamente da Mike Pompeo, e al ministro della Difesa e vice primo ministro Benny Gantz dal capo del Pentagono (ormai dimessosi) Mark Esper, entrambi impegnati in un’opera di rassicurazione che passa anche dal rafforzamento della collaborazione in campo militare.

DETERRENZA SULL’IRAN

Anche per convincere Israele, gli Stati Uniti hanno rispolverato abbondantemente la carta della deterrenza iraniana, la stessa su cui si basa buona parte della normalizzazione di rapporti tra Gerusalemme e Abu Dhabi (entrambe antagoniste di Teheran) e con cui Washington punta a convincere altri Paesi del Golfo a salire a bordo degli “Abraham Accords”. Gli Emirati, notava Pompeo ad agosto in Israele, hanno “bisogno” di certi equipaggiamenti per risponde all’assertività dell’Iran.

TRA CONGRESSO…

La partita più delicata riguarda però il fronte interno, ovvero la complessa transizione tra Donald Trump e Joe Biden. L’annuncio in grande stile di Mike Pompeo conferma l’interesse dell’amministrazione uscente a procedere con la vendita entro la fine dell’anno. Occorrerà però superare il necessario passaggio al Congresso, con una conformazione politica ancora da chiarire. In più ci sono le tribolazioni nel gabinetto di Donald Trump.

…E PENTAGONO

A 24 ore dalle dimissioni di Mark Esper, è emersa oggi notizia (prima su Politico, poi confermata da Defense News) di quelle del sottosegretario per la Politica James Anderson, in carica in qualità di “acting” dallo scorso febbraio. Un passo indietro destinato a farsi sentire, soprattutto considerando le parole di Anderson: “Ora più che mai, il nostro successo a lungo termine dipende dall’adesione alla Costituzione degli Stati Uniti che tutti i dipendenti pubblici giurano di sostenere e difendere”.

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