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La Cina è già pronta. Ora aspetta la Casa Bianca

Di Filippo Fasulo

Ridurre l’esposizione verso l’esterno è una delle chiavi del nuovo piano quinquennale di Pechino, che aspetta il risultato delle elezioni presidenziali Usa pur sapendo che ormai è diffusa la convinzione che le relazioni industriali abbiano anche un valore strategico e ideologico. L’analisi di Filippo Fasulo, direttore del Centro studi per l’impresa della Fondazione Italia Cina

“China! China! China!”. Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2016 l’ossessione del presidente Donald Trump verso il gigante asiatico sembrava poco più che materiale per meme da far girare sui social. Allo stesso modo, lo spazio dedicato a Peter Navarro, un economista con posizioni radicali sulle relazioni commerciali con la Cina e un gusto per titoli d’impatto per le sue pubblicazioni (The coming China wars del 2006 e Death by China del 2011) appariva solo come una concessione radicale in una campagna polarizzante. L’idea che Trump non avesse davvero l’intenzione di portare avanti i suoi propositi di revisione delle relazioni commerciali rimase tale almeno fino alla fine del 2017, quando una visita a Pechino del presidente americano si concluse con accordi economici e la sensazione di una relazione fortemente sbilanciata in favore di Xi Jinping, esperto prodotto del meccanismo di selezione del tecnocratico Partito comunista cinese. Anche un rapido sguardo ad alcuni dei titoli risalenti a quel periodo produce un effetto di straniamento o perlomeno un sorriso beffardo a un osservatore del 2020. Si pensi, per esempio, a Why China won 2017 and how Donald Trump helped them do it (CNN, 4 novembre 2017), Trump’s Visit to China: More Business Deals Than Trade Pacts (New York Times, 7 novembre 2017) e Trump praises China and blames US for trade deficit. President says he does not blame Beijing ‘for taking advantage’ of US, and is confident it will defuse North Korea threat (The Guardian, 9 novembre 2017).

In realtà, in quel periodo era già stata avviata un’indagine, partita nell’agosto 2017 secondo la Sezione 301 del Trade Act del 1974, sulle azioni cinesi in merito al trasferimento tecnologico, alla proprietà intellettuale e all’innovazione. Sul rapporto dell’investigazione — cui ha fatto seguito immediatamente da parte dell’Ufficio del Rappresentante del commercio statunitense la richiesta di apertura di un procedimento di risoluzione delle controversie in ambito Wto —, ci sono da rilevare due cose: innanzitutto, venne pubblicato il 22 marzo 2018, ovvero appena due giorni dopo la fine della riunione plenaria dell’Assemblea nazionale del popolo cinese (il Parlamento di Pechino) che aveva approvato la modifica costituzionale sulla rimozione del limite dei due mandati presidenziali. Tale azione, che faceva seguito all’inserimento del nome di Xi nello Statuto del Partito comunista cinese in occasione del Diciannovesimo congresso che si era tenuto ad ottobre 2017, certificava l’accentramento del potere nelle mani del segretario generale del Partito comunista cinese e Presidente della Repubblica popolare cinese in carica. Inoltre, fin dall’inizio l’attenzione era rivolta agli aspetti tecnologici, come diverrà chiaro nei mesi successivi con le dispute con Zte e Huawei.

Queste premesse sono fondamentali per capire lo stato delle relazioni oggi. Uno scontro che utilizza la leva commerciale per regolare tensioni nel solco di una competizione per il primato tecnologico ed economico sul lungo periodo, resa urgente dalla rapida evoluzione del quadro di politica interna cinese. Fissare tali elementi permette sia di mettere a fuoco come in quasi tre anni i motivi di contrasto non si siano per nulla risolti sia come il “premio” finale della competizione non sia di breve termine, ma su un orizzonte temporale più lungo. In questo senso, i giusti rilievi del Peterson Institute for International Economics che riporta come la Cina sia ben lontana — appena il 53% di quanto promesso secondo i dati aggiornati a settembre — dall’onorare gli impegni in termini di importazioni siglati in occasione del US-China Phase One Trade Agreement di gennaio 2020 o altre analisi che sottolineano come il costo dei dazi sia ricaduto sui consumatori americani non dovrebbero portare a un ritorno alla condizione precedente alla trade war. Infatti, il risultato principale di Trump è stato quello di aver coagulato consenso sulla necessità di confrontarsi con efficacia con la Cina, dopo che il pivot to Asia dell’epoca di Barack Obama aveva sostanzialmente fallito nel contenere l’ascesa cinese nell’ultimo decennio. Addirittura, come dice Ely Rattner, uno dei consiglieri di Biden sulla Cina, ad Axios.com con Pechino “c’è una competizione tecnologica, militare, economica, ideologica e diplomatica”, tutti elementi emersi già all’avvio della trade war.

Le conseguenze di questa situazione sono piuttosto evidenti anche nelle linee di sviluppo dell’economia cinese inserite nel Quattordicesimo piano quinquennale che verrà approvato a marzo 2021. Gli elementi centrali sono un’attenzione per una crescita su scala almeno quindicinale e, soprattutto, l’esigenza di ridurre l’esposizione verso l’esterno nella convinzione che le relazioni industriali abbiano anche un valore strategico e che verranno affrontate con azioni che saranno dirette da calcoli di natura ideologica — in particolare sulla differenza tra economia di mercato ed economia a forte impronta statale — e di strategia militare oltre che economica. Un tale spirito appare ormai condiviso da entrambi le sponde del Pacifico e, negli Stati Uniti, in maniera bipartisan. Quel che potrebbe differire è un approccio più isolazionista di Trump in alternativa a uno di maggior coinvolgimento degli alleati da parte di Biden.

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