Per quanto i rapporti con Washington possano tornare più distesi con un’amministrazione Biden, l’Europa dovrà fare tesoro della lezione degli ultimi anni e costruire una vera “cultura strategica” europea. Il commento di Gianna Gancia, europarlamentare della Lega
Salvo colpi di scena straordinari, il 20 gennaio prossimo Joe Biden giurerà come quarantaseiesimo presidente degli Stati Uniti d’America.
Il presidente-eletto ha già più volte dichiarato di voler rovesciare quattro anni di politica estera del presidente uscente Donald Trump sotto un nuovo slogan: “Ripristinare la leadership americana”, nel tentativo di ricucire strappi e tensioni, dentro la Nato e con l’Europa.
Questo, inutile nasconderlo, ha scaldato i cuori dei leader delle maggiori capitali europee, che speravano in una vittoria di Biden per mettere fine a un rapporto turbolento con l’amministrazione americana e voltare pagina, lasciandosi alle spalle quattro anni di protezionismo commerciale mal digerito soprattutto da Berlino.
Al netto del rinvigorimento dei rapporti commerciali a cui auspico con rinnovato ottimismo, resta l’interrogativo sui temi strategici della politica estera.
Ripercorrendo brevemente la storia recente, le relazioni transatlantiche avevano iniziato a logorarsi molto prima del 2017. Una prima battuta d’arresto era arrivata durante l’amministrazione di George W. Bush, prima che Barack Obama riprendesse un dialogo più fondato sul concetto di peaceful coexistence piuttosto che di totale convergenza di interessi e di vedute con gli europei.
È stato, infatti, Obama (di cui Biden fu vicepresidente) ad annunciare nel 2011 che gli Stati Uniti avrebbero cominciato a guardare più all’Asia che all’Europa, spostando il focus strategico dalle sponde dell’Atlantico a quelle del Pacifico. A mio avviso dunque, l’arrivo di Trump non ha fatto altro che accelerare un processo già avviato da lungo tempo, esacerbando toni e stili diplomatici con cui non eravamo abituati a confrontarci.
Con la pandemia di Covid-19 che ha falcidiato gli Stati Uniti, possiamo immaginare che non siano stati i temi di politica estera a decidere l’elezione. Ma è proprio in politica estera che l’Unione europea si aspetta un cambio di passo: sulla lotta alla pandemia, al cambiamento climatico e sulle altre sfide globali, le divergenze maturate in questi anni potrebbero colmarsi presto. Ma su altri temi è troppo prematuro brindare: è probabile che Biden, in cambio di una ritrovata centralità americana all’interno della Nato, insisterà sugli alleati affinché incrementino l’impegno militare in termini di spesa e mobilitazione negli scenari regionali in cui gli Stati Uniti non vedono più in gioco i propri interessi strategici, come nel Mediterraneo Orientale o in Nord Africa, ma dove comunque una presenza alleata forte garantirebbe una maggiore stabilità. In questo contesto, uno dei principali nodi da affrontare riguarderà la scomoda posizione della Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che sogna di riscoprirsi grande potenza attraverso la strategia geopolitica della “Patria blu”, proiettando il Paese, con atteggiamento aggressivo e spregiudicato, sull’Egeo e sul Mediterraneo orientale.
Sul fronte della politica interna, dietro lo slogan usato in campagna elettorale “Time to heal in America”, c’è la necessità di ricucire un Paese profondamente diviso e lacerato al suo interno: Trump non è stato che l’epifenomeno di una radicale trasformazione che stanno attraversando gli Stati Uniti d’America dal punto di vista economico, sociale e politico.
Per quanto i rapporti con Washington possano tornare più distesi con un’amministrazione Biden, non cambierà comunque il dato di fatto che i grandi teatri dello scontro geopolitico sono diventati altri, ed è verso di loro che si concentrerà lo sguardo americano. L’Europa, alleata o rivale che sia, dovrà fare tesoro della lezione degli ultimi anni e costruire, per usare le parole del presidente del Comitato militare dell’Unione europea, il generale Claudio Graziano, una vera “cultura strategica” europea, fondata su una visione condivisa da parte degli Stati membri di quelle che sono le minacce e le sfide comuni, da affrontare abbracciando il principio di autonomia strategica, che prevede la capacità dell’Unione di agire da sola quando necessario, oppure in contesto di maggiore cooperazione quando possibile.