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Cosa non torna nell’accordo Ue-Cina. Scrive Ghiretti (Iai)

Di Francesca Ghiretti

Il contenuto dell’accordo Ue-Cina non è l’unico problema: c’è anche quello del segnale inviato da Bruxelles a Washington. L’analisi di Francesca Ghiretti, ricercatrice nell’ambito degli studi sull’Asia presso l’Istituto affari internazionali

A sette anni dall’inizio dei negoziati pare che l’accordo comprensivo sugli investimenti (Cai) giungerà a conclusione prima della fine del 2020. Il momentum creato dall’impellente insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca e dalla determinazione della presidenza tedesca del Consiglio dell’Unione europea ha portato a nuove concessioni da parte cinese.

Di per sé la conclusione di questo accordo è una notizia positiva, infatti permetterebbe maggiore accesso e tutela delle imprese europee al mercato cinese, un avvicinamento alla tanto agognata reciprocità. Eppure, è impossibile non notare come l’impazienza cinese possa essere non solo frutto del prossimo cambio di presidenza negli Stati Uniti, ma anche del fatto che a gennaio 2021 entrerebbe comunque in atto la nuova legge sugli investimenti esteri in Cina che vedrebbe comunque un’apertura del mercato. La legge è stata completata dall’adozione di un meccanismo di revisione degli investimenti che opera in difesa della sicurezza nazionale. Il meccanismo comprende alcuni settori d’interesse proprio del Cai come energia, risorse naturali, agricoltura, tecnologie internet e servizi finanziari. Nulla di strano, sia gli Stati Uniti sia gli europei hanno adottato meccanismi di protezione simili, anche questa è reciprocità. Tuttavia, rimane da chiedersi se questa versione del Cai porterebbe vantaggi effettivi in più rispetto alla già pianificata apertura e se questi vantaggi sarebbero poi limitati da questo nuovo meccanismo.

Il contenuto dell’accordo non è l’unico problema. S’aggiunge il tipo di messaggio mandato dall’Unione europea. La preoccupazione in questo caso non è solo Washington, sarebbe infatti strano pensare che le relazioni tra i due attori possano incrinarsi per la firma del Cai. Il problema è che l’Unione europea continua a segnalare incoerenza, agli Stati membri, ai partner e al mondo. Non è mai stato un mistero che, come tanti altri, anche l’Unione europea mentre colloca i valori in prima linea, sia principalmente concentrata su interessi economici, questa non è una caratteristica né nuova né unica dell’Unione europea. Eppure, l’Unione europea rispetto ad altri è particolarmente vocale nell’identificarsi con questi valori, questo fa si che poi quando questa posizione valoriale viene compromessa per favorire interessi economici, il contrasto sia particolarmente evidente.

Nel caso specifico del Cai si sono raggiunti livelli che rasentano il comico. La Commissione europea annuncia la vicina chiusura degli accordi la stessa settimana in cui il Parlamento europeo vota una risoluzione in difesa degli uiguri. L’ironia? Il Cai si firmerà ma senza la condizione che vorrebbe l’abolizione del lavoro forzato in Cina, lavoro forzato che è proprio elemento alla base della risoluzione del Parlamento. In realtà, la firma del Cai non impedirebbe all’Unione europea di applicare sanzioni per gli avvenimenti nello Xinjiang o per altro, ma il problema qui non è la pratica bensì l’incoerenza del messaggio. Questa volta, per giunta, la divisione non è tra i diversi interessi degli Stati membri, ma tra istituzioni. In questo caso il messaggio è arrivato forte e chiaro, gli interessi economici dell’Unione vengono prima di tutto.

Il problema dunque non è che l’Unione europea firmi un accordo sugli investimenti con la Cina, che è ovviamente benvenuto, ma in primis che questo accordo possa non portare reali vantaggi alle imprese europee (non vantaggi sussidiari a una legge che passerebbe comunque) e che vada a sottolineare la recidivante incoerenza di cui l’Unione europea si macchia nella comunicazione della propria identità e posizione. Infine, non ignorabile è la valutazione della coerenza del Cai con il quadro europeo sugli investimenti e l’iniziativa riguardante le imprese finanziate dallo Stato, nonché la capacità dell’accordo di portare la controparte cinese ad aderire realmente a un meccanismo di risoluzione delle controversie in linea con i requisiti legali europei e internazionali.

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