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Perché alla Cina fa gola Taiwan (e perché dobbiamo difenderla)

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Perché dobbiamo difendere Taiwan? Non solo e non tanto per ragioni di strategia militare ma perché il futuro della digitalizzazione in Europa e negli Stati Uniti dipende in gran misura dalla provvista di una categoria di microchip che oggi vengono prodotte solo a Taiwan e Corea del Sud. L’analisi di Giuseppe Pennisi

Ho lavorato a Taiwan diversi decenni fa, quando ero in Banca mondiale. Allora a Taiwan, così come a Singapore (dove andavo di frequente e il 90% della cui popolazione è cinese) mi colpì l’operosità e la industriosità delle mie controparti e l’efficienza non solo nel settore privato ma anche nella pubblica amministrazione. Stesse caratteristiche della popolazione della Corea del Sud (dove soggiornai a lungo per impostare la prima linea di credito della Banca mondiale per la scienza e la tecnologia; allora la Corea del Sud aveva un reddito pro capite che era metà di quello dello Zambia). È un’operosità che contraddistingue gran parte della popolazione della Repubblica Popolare Cinese, che considera Taiwan una sua “provincia” e che intende impadronirsene così come ha fatto di Hong Kong e prima di allora di Macao, del Tibet e di parte importante della Mongolia.

Perché dobbiamo difendere Taiwan? Non solo e non tanto per ragioni di strategia militare ma, come spiega, in un saggio recente, Ruchir Sharma, direttore delle strategia globali di Morgan Stanley Investment Management, il futuro della digitalizzazione in Europa e negli Stati Uniti dipende in gran misura dalla provvista di una categoria di microchip che oggi vengono prodotte solo a Taiwan e Corea del Sud. Tra i due Paesi – secondo Sharma – non c’è un duopolio ma una leale concorrenza sui mercati occidentali, anche se – sempre secondo Sharma- Taiwan ha il primato sia tecnologico sia di mercato.

Come hanno fatto i due Paesi a raggiungere questo primato. Dalla fine degli Anni Sessanta del secolo scorso, hanno puntato sull’istruzione e sulla scienza e la tecnologia (ho ricordato il mio lavoro per la prima linea di credito alla Corea per la scienza e tecnologia) in modo, però, divergente. Seul ha spinto la creazione di conglomerati come Samsung e Hyundei e Taipei ha favorito parchi tecnologici di piccole e medie imprese. Ha precorso, sotto molti, punti di vista Silicon Valley.

In una prima fase, negli anni Settanta, ha imitato in gran misura le tecnologie europee per passare, ad esempio, dal tessile alla meccanica leggere. In una seconda fase, negli anni Ottanta, ha sviluppato i parchi tecnologici anche offrendo condizioni di lavoro favorevoli a taiwanesi, per lo più giovani, che lavoravano all’estero perché mettessero i loro cervelli e le loro energie al servizio del Paese. Un rientro importante è stato quello di Morris Chang, che aveva studiato al Massachusetts Institute of Technology ed in pochi anni era asceso ai piani alti della Texas Instruments. Chang ha contribuito ad una organizzazione del settore, tramite aggregazioni e fusioni, sviluppando sia la produzione interna sia quella internazionale. Oggi, ad esempio, con fabbriche in Asia, Europa ed America Latina, la Foxcomm Technology assembla il 40% della elettronica leggera sul mercato mondiale. Di maggior momento, la Taiwan Semicondustor Manufactoring Company (TSMC), creata da Chang, che produce le chips più avanzate; oggi TSMC ha superato Intel e circa due terzi delle chips disponibili al mondo vengono dai suoi impianti. La stessa Apple ha cambiato fornitore: da Samsung a TSMC. Il valore di queste chips è tale che parte delle misure americane per contrastare la Repubblica Popolare Cinese è stata diretta ad impedire infiltrazioni di Huawei in TSMC per carpirne la tecnologia. Pechino ha quindi spinto per accelerare i propri programmi per chips dell’ultima generazione. Ma la distanza è ancora ampia e nel frattempo TSMC ha aperto un grande impianto in Arizona.

Taiwan e le sue chips sono, quindi, al centro di una guerra tecnologica mondiale. L’Italia deve chiarire da che parte sta.


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