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Cyberbullismo, dal Gatto e la Volpe ai giorni nostri

Di Biagino Costanzo

In questo momento storico, dove sia gli addetti ai lavori che non, spingono per una giusta e capillare diffusione digitale in tutto il territorio nazionale, la rete è una delle poche occasioni di socialità e comunicazione. Non possiamo permettere però che sia il portone di ingresso per mali altrettanto subdoli, dolorosi e talvolta molto peggiori della pandemia. L’intervento di Biagino Costanzo, docente master in Homeland Security

“Che nome gli metterò? – disse tra sé e sé. – Lo voglio chiamar Pinocchio.
Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi, e tutti se la passavano bene. Il più ricco di loro chiedeva l’elemosina.”

Tutti noi conosciamo “Le avventure di Pinocchio”, il burattino dal buon cuore che spesso si mette nei guai e, nel tentativo di giustificarsi, finisce per peggiorare il tutto confezionando una bugia dietro l’altra, ed il suo naso cresce.
Capolavoro metaforico della realtà umana, al cui ideatore si riconosce la vena esoterica e fortemente simbolica: nelle sue vicissitudini, Pinocchio incontra molti personaggi poco rispettabili che sfruttano le sue debolezze e le sue illusioni per trarne un vantaggio, quasi sempre, economico.

Oggi non ci sono il Gatto con la Volpe, ma troviamo altri sinistri personaggi: la Blue Whale, Jonathan Galindo ecc., ed il teatro non è quello, coloratissimo, di Mangiafuoco, ma un Blackout Game in cui la metamorfosi dell’individuo non lascia via di scampo.

Questi nuovi burattinai sono in grado di percepire e sfruttare il disorientamento e la vulnerabilità dei giovani ragazzi per affermare la propria onnipotenza sulla rete, utilizzata come palcoscenico di spettacolarizzazione della morte.
Il tornaconto in questo caso non è il denaro, ma sfrutta lo stesso – sottilissimo – vizio capitale: la superbia, vettore di ostentazione per il disprezzo altrui. Oggi le avventure di Pinocchio sono storie di cyberbullismo.

Un episodio che ha turbato la cronaca nel mese di ottobre, ha visto protagonista un ragazzino di 11 anni che, dopo aver inviato un sms di addio alla sua famiglia, nell’inseguire l’uomo col cappuccio, si è tolto la vita.
Chiaramente la vicenda ha colpito tutti noi per l’inquietante semplicità con cui si è consumata la tragedia.

In quali lacune si insidia la manipolazione? Può la rete, da sola, ipnotizzare a tal punto la mente di un individuo?

Nei casi simili a quello citato, nell’analizzare i comportamenti dei giovani, è emersa una ricorrente introversione ed una tendenza a passare molto tempo in solitudine, al cellulare, con la comparsa di lesioni sulle braccia (tagli, graffi) giustificati con le scuse più banali.

Come spesso accade, l’esposizione mediatica dei fatti di cronaca legati ai cosiddetti “giochi della morte”, non innalzano il livello di attenzione nei giovani, ma per un qualche contorto meccanismo, ne stimolano la curiosità e la partecipazione.

La necessità del riconoscimento social(e) e la ricerca di una identità di appartenenza è l’input per la trasformazione: proprio come il burattino che, ammaliato dal fascinoso paese dei balocchi, incapace di rifiutare l’invito di un “amico” e per la paura di essere deriso, diventa un ciuchino.

Ecco allora che anche quei ragazzi apparentemente più forti e sicuri di sé, diventano le fragili vittime di questi novelli creatori di gang che partono via social a convocare, per esempio appuntamenti per “sfogare” una inquietudine ormai non più derubricabile alla irrilevanza.

È proprio di questi giorni la notizia della mega rissa annunciata, e pubblicizzata via social, da centinaia – si, centinaia! – di giovani sulla splendida terrazza del Pincio a Roma. L’alto movente del moderno duello si è scoperto essere (udite! udite!) il furto di un cellulare.

Anche in questo caso, l’emulazione non ha tardato ad arrivare e si è assistito alla stessa scena anche in piazza del Popolo e a Venezia, dove 40 adolescenti se le sono date di santa ragione nei pressi di Rialto. Per quanto patetici questi episodi, ci inducono purtroppo ad una seria e amara riflessione.

Che ruolo ha la famiglia. La sempre più scarsa attenzione di molti genitori e degli “adulti” che non parlano più davvero con i propri figli ha come risultato l’indifferenza e la disattenzione verso gli stati di umore dei giovani, con l’errata convinzione che la costante interazione con la tecnologia possa sopperire alle conversazioni padre-figlio.

È facile scaricare la responsabilità, come spesso avviene, su tutto il resto del mondo: la scuola, le istituzioni e la società intera, pur di rimanere cechi sulla propria superficiale trascuratezza. Come si fa a non riflettere scrupolosamente su quello che sta succedendo? Possibile che l’egoismo prevalga, sempre e comunque, a scapito di una visione costruttiva del futuro?

La Polizia di Stato, mi si permetta l’accostamento, è il nostro moderno grillo parlante perché è da sempre attenta a questi temi ed insieme con il ministero dell’Istruzione ha dato il via ad una campagna educativa itinerante sui temi legati a social network, bullismo e cyberbullismo, volta a sensibilizzare i ragazzi e le famiglie sull’utilizzo consapevole delle potenzialità della rete. Ancora una volta, la prevenzione ed il dialogo sono le armi vincenti.

Qui di seguito i dati relativi al Cyberbullismo rilasciati dalla Polizia di Stato.

In questo momento storico, dove sia gli addetti ai lavori che non, spingono per una giusta, utile, maggiore e capillare diffusione digitale in tutto il territorio nazionale, la rete è una delle poche occasioni di socialità e comunicazione che ci consente di tenere lontano questo maledetto virus, ma non possiamo permettere che sia il portone di ingresso per mali altrettanto subdoli, dolorosi e talvolta molto peggiori.

La rete deve essere sì contagiosa, ma di buona educazione: è questa la vera trasgressione.

In gioco vi sono la civiltà, il senso del condividere gioie e dolori, la vita in generale, e come giustamente afferma il prof. Galimberti “Bisognerebbe cominciare a farlo da piccoli, insegnare ai bambini a capire e gustare chi si è, cosa si fa, e che cosa si vuole fare domani nel mondo. Se questi pensieri cominciassero ad essere introdotti già dalla scuola forse ci sarebbe un modellino interiorizzato per farlo poi da adulti. Perché vivere a propria insaputa è la cosa peggiore che possa accadere nella propria esistenza”.

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