Che nei prossimi 10 anni l’Unione riesca a più che raddoppiare il taglio ottenuto in 30 anni, mantenendo un tasso di crescita dell’economia superiore al 2% e senza gli spazi di miglioramento nell’est è oltre l’ottimismo della volontà… Il commento di Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia
Stupisce che nessuno si chieda dove siamo adesso, come ci siamo arrivati, e se i precedenti obiettivi siano stati raggiunti. Così, nel generale entusiasmo generato dal continuo rincorrersi di nuovi obiettivi sempre più ambiziosi, sfugge che dietro si cela un arretramento culturale, politico e, soprattutto, economico dell’Unione europea che cerca di colmare con le rivoluzioni verdi indispensabili per salvare il pianeta dal cataclisma climatico. Per quanto siano condivisibili le ambizioni (e chi potrebbe essere contro l’efficienza energetica, l’economia circolare, l’energia dal sole e dal vento, meno dall’acqua, perché ci sono le dighe che fanno sempre paura), per quanto condivisibili, dicevamo, appaiono un po’ deboli, sia per nascondere le debolezze che l’Europa ha, sia per tenere il passo con la Cina e gli Stati Uniti, che certamente di problemi ne hanno in abbondanza, ma che si stanno avvantaggiando su di noi. La leadership culturale e politica europea è ancora salda, tuttavia fondarla prevalentemente sull’accelerazione ambientale è poco rispetto alla nostra Storia.
Innanzitutto, l’Unione europea conta per solo il 10% delle emissioni complessive di CO2 a livello globale, circa 3,3 miliardi di tonnellate all’anno, su un totale di 34,2 miliardi di tonnellate, un valore che nel 2019, prima della pandemia, era già sceso del 3,9% e che nel 2020 vedrà un’altra caduta causa pesante recessione economica. Al netto del Covid, nel 2019 le emissioni erano il 24% in meno rispetto al 1990, data di riferimento decisa nel 1997 con il dimenticato protocollo di Kyoto. L’Europa può vantare così un taglio negli ultimi 30 anni di 1 miliardo di tonnellate, sforzo, però, del tutto vanificato dall’aumento di 13 miliardi di tonnellate del resto del mondo, soprattutto per responsabilità cinese, a cui abbiamo demandato gran parte dell’attività manifatturiera del mondo. Ma in forte aumento sono state anche quelle dell’India, più 1,7 miliardi, mentre quella degli Stati Uniti sono rimaste immutate, in quanto la crescita fino a 10 anni fa è stata annullata grazie a uno scambio fra fossili, meno carbone e più gas, estratto in abbondanza grazie ai “cattivi” petrolieri della fratturazione idraulica.
L’obiettivo in essere per il 2020, tanto dibattuto 10 anni fa, è quello del 20-20-20, fissato nel 2008 che indicava un taglio delle emissioni di CO2 del 20%, soglia ampiamente superata già l’anno scorso. Il primo punto da sottolineare è che per raggiungerlo ci sono voluti 30 anni, mentre la Commissione ha ufficializzato l’11 dicembre di portare quello al 2030 dal 40%, concordato nel 2018, al 55%. Già il raddoppio dal 20 al 40%, in 10 anni invece di 30, appare uno sforzo enorme, ora portarlo al 55% dà un’idea della determinazione ambientale della nuova politica europea. Il secondo problema riguarda il fatto che gli spazi iniziali per il miglioramento erano enormi, in particolare con l’abbondanza di impianti decrepiti e inquinanti ereditati nell’est europeo dopo il crollo del comunismo del 1989. Facile tagliare le emissioni quando tutta l’industria pesante della Germania dell’Est è stata chiusa per essere sostituita da impianti moderni occidentali, o per lasciare spazio ad un’economia meno pesante da pianificazione comunista. Molte centrali a carbone inefficienti sono state chiuse, anche se proprio l’ultimo ostacolo superato riguarda proprio il carbone della Polonia. Seppur ci sia ancora del carbone in giro in Europa, qualche briciola anche in Italia, gli spazi non sono quelli di 30 anni fa e pensare di sostituirlo interamente con fonti rinnovabili, e non con gas dalla Russia, come vorrebbe l’ambiente, è illusorio.
Più grave, però, è che il miglioramento ambientale dell’Europa cela in realtà una crescita modesta della propria economia, peraltro molto variegata al suo interno. Il Pil dal 1990 è cresciuto meno dell’1,8% all’anno, mentre negli Usa è salito al 2,5% e in Cina al 9,3%. Il peso dell’Unione sul Pil mondiale è passato dal 23% al 15% del totale. All’interno dell’Europa, poi, alcuni Paesi rimangono indietro e fra questi, purtroppo, spicca l’Italia che, nel periodo, è cresciuta solo dello 0,8% all’anno. Fosse stata più sostenuta la crescita dell’economia europea, come noi italiani dovremmo sperare, e se non fosse in corso un processo di pesante deindustrializzazione, allora anche le emissioni di CO2 sarebbero state ben superiori e l’obiettivo del 20% non sarebbe stato raggiunto.
Ora, che nei prossimi 10 anni l’Unione riesca a più che raddoppiare il taglio ottenuto in 30 anni, mantenendo un tasso di crescita dell’economia superiore al 2% e senza gli spazi di miglioramento nell’est è oltre l’ottimismo della volontà, mentre, più concretamente è qualcosa che andrà ancora a peggiorare il processo di deindustrializzazione del Vecchio Continente, mentre si continuerà a sostenere che l’economia verde è il vero nuovo Eldorado.