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Finanziamenti europei e tempi della giustizia (civile). La riflessione di Corbino

Di Alessandro Corbino

Un efficace utilizzo dei finanziamenti europei dipenderà, anche, se non soprattutto, dai tempi della giustizia (in particolare civile). Le vere “vittime” del sistema – intriso di lungaggini ed inefficienze – sono i “piccoli”. Coloro che vivono non di (poche) importanti relazioni, ma di (moltissime) sparse micro-relazioni con piccoli interlocutori, che utilizzano inoltre (non sempre, ma non raramente) quelle lungaggini come scudo. L’analisi di Alessandro Corbino, già professore ordinario di Diritto romano all’Università di Catania

Tra le più sottolineate necessità strategiche da considerare per rendere possibile un efficace sfruttamento delle opportunità aperte dagli annunciati (speriamo presto anche definiti) finanziamenti europei vi è – come tutti sanno – la questione dei tempi della giustizia (in particolare civile).

Peccato però che, quando si va a guardare alle proposte in campo per conseguire l’obiettivo, se ne trovano solo di migliorative della organizzazione (risorse di personale e materiali) e delle forme (informatizzazione di atti e procedure, termini da osservare e così via). Nessuno che guardi al fondo delle cose. È ben vero che carenze organizzative incidono certamente (e non poco) sull’efficienza del sistema (e dunque sulla durata della lite, con tutte le ricadute di ordine generale che questo comporta). Ma è del tutto illusorio immaginare che – migliorati quegli aspetti – cessi la questione. Il problema è altrove.

Il problema è nel rapporto di “fiducia” tra utente (cittadino) e sistema giustizia. Lo governa oggi una “diffidenza” di fondo che induce tutti (generalizzo per semplificare) a considerare la “decisione” di primo grado una sorta di “esperimento”, la successiva un terreno di più approfondito impegno (nel quale il percorso argomentativo si fa forte della esperienza consumatasi nel primo grado) e la “definitiva” (quella che verrà dalle Corti Superiori) la “ineludibile” alla quale “rassegnarsi” (ma comunque dopo un periodo di molti anni, che ha comunque rallentato e allontanato – con sollievo del resistente e annichilimento dell’avversario – gli effetti delle violazioni normative consumate).  E sempreché ancora non si apra comunque un qualche spiraglio di ulteriore ridiscussione delle cose in sede comunitaria. Se il percorso descritto non è seguito sempre e da tutti in ogni tappa è solo per la possibilità (comunque non generale e legata a presupposti specifici non sempre invocabili) di intermedi provvedimenti “cautelari” (che rovesciano l’onere delle aspettative) e per gli elevati costi da sopportare. Ma che esso costituisca quello comune è reso palese dal ricorso ordinario (ormai lungodatato) dei competitori “forti” (quelli per i quali la lite si lega a valori milionari di essa) a sistemi di giustizia alternativa (gli arbitrati, non solo internazionali).

Le vere “vittime” del sistema – intriso di lungaggini ed inefficienze – sono i “piccoli”. Coloro che vivono non di (poche) importanti relazioni, ma di (moltissime) sparse micro-relazioni con piccoli interlocutori, che utilizzano inoltre (non sempre, ma non raramente) quelle lungaggini come scudo. Con l’aggiuntiva beffarda difficoltà, per chi chiede giustizia, di non potere comunque ottenere  alla fine “copertura” del credito, per la frequente incapienza (spesso anche maturata nel tempo grazie alle spregiudicate opportunità offerte dall’inefficienza “strutturale” del sistema) che la “debolezza” del debitore porta con sé.

Insomma discutere di giustizia civile dovrebbe voler dire guardare alla radice della questione.

Non è il miglioramento dell’efficienza dei (molti) percorsi del “giudizio” che può assicurare allo stesso il consenso indispensabile di chi soccombe. La strada è un’altra. Occorrerebbe generalizzare (molto oltre il timido ricorso a forme solo incentivate di “mediazione”) il principio del quale i forti da tempo si giovano: la individuazione di un giudice che goda della “fiducia” di chi vi ricorre (e che non giustifichi perciò la recusazione del suo giudizio). Quel principio, cioè, che informa l’arbitrato e che ha radici nella storia di tutti gli ordinamenti che non siano connotati dall’idea che la “giustizia” possa essere espressione di un “corpo separato” di “funzionari” del “potere pubblico”. Per la semplicissima ragione che se quel potere ne condiziona (o pretende, come sta accadendo in alcuni paesi della nostra stessa Europa) l’azione, essi non possono esprimere alcuna valutazione “indipendente” (ne diventano la “voce”). E se quel potere invece non ne può (come in Italia) condizionare l’azione, essi diventano certo giudici “indipendenti”, ma al punto da potere anche divenire espressione essi stessi di un “potere” che rende “sudditi” i suoi destinatari. I quali si vorrebbe invece fossero (nella declamazione astratta del disegno giuridico-costituzionale) i committenti: il popolo sovrano. Il rischio (che l’esperienza di questi quarant’anni dice essere tutt’altro che teorico) è che essi divengano non i titolari di una “funzione” del “potere generale di governo”, ma i gestori piuttosto di un regime della vicenda (sistema giustizia) che si connota di larga (e incontrollata) autoreferenzialità. Per la semplicissima ineludibile ragione che a guidare effettualmente le cose è – manifestamente (come non può non essere) – non la “legge”, ma la “interpretazione” che di essa interviene nei tribunali (la concreta attuazione che essa riceve).

Quella del giudice è una “funzione” alla quale dà sostanza la “neutralità” con la quale la si esercita. E dunque la “fiducia” che in tale neutralità nutrono coloro che ne subiscono i risultati. La quale “fiducia” trova la sua unica possibile giustificazione nel fatto prossimo che le dà evidenza. Non dunque in un astratto e lontano “patto costituzionale” (che per funzionare esige una condivisione di molti). Ma in una concreta e vicina decisione dell’interessato diretto, a lui opponibile. L’affidamento che gli ha fatto ritenere “terzo” (e perciò credibile) il giudice che egli “ha scelto” (contribuito a scegliere) per sé gli precluderà ogni possibilità di contestazione (che non sia l’illecito: la collusione/corruzione). La “decisione” (fallibile ed umana) troverà legittimazione nel “suo” (libero) comportamento. La subirà, come subirebbe quella di un giudice “funzionario”. Ma ora come  conseguenza solo di una “sua” inavvedutezza.

La questione tempestività seguirà del tutto naturalmente. L’apparato burocratico si semplificherà e i tempi della decisione saranno contenibili in un arco molto controllato, e direttamente dagli interessati.

È ovvio che tutto questo esige una riflessione – in termini di conversione in una normazione “sostenibile” – attenta, e non banale. Che non può per altro essere nemmeno disinvoltamente generalizzante. Alle liti tra privati si connettono talora interessi “pubblici” che devono ricevere considerazione. I primi dei quali sono  il controllo di ammissibilità della lite e gli apparati esecutivi da predisporre. Ma non solo. Ne rilevano anche di sostanziali (si pensi, per esempio, alle questioni di stato). E non va trascurato nemmeno come non tutti i privati siano in grado di sostenere (senza sostegno pubblico) gli oneri di una giustizia di tipo arbitrale. E altro ancora sicuramente.

Nessuna illusione di scorciatoie semplici insomma. Ma mettere la discussione sul giusto binario è fondamentale.

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