In vista di G20 e Cop26 l’Italia deve dedicare più attenzione a questioni meno spettacolari, ma più urgenti. Per esempio, difendere quell’industria che può innovare per attenuare la crescita dei fossili e delle emissioni. L’analisi di Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia
Il 20 aprile 2020 sulla Borsa a termine del petrolio, il New York Mercantile Exchange, il contratto in scadenza ha chiuso a meno 35 dollari per barile, valore incredibile, impossibile, dovuto in buona parte a un incidente nei complessi meccanismi della finanza americana, ma indicativo, altresì, del taglio di domanda che in quei giorni si verificava a livello globale per la completa chiusura dopo l’esplosione della pandemia. A dicembre 2020 il prezzo del petrolio è tornato sopra i 50 dollari e per il 2021, con il ritorno lento a normalità, probabilmente salirà oltre i 60 dollari, perché la domanda è destinata a rimbalzare. Le montagne russe del petrolio sintetizzano bene un anno di domanda di energia da fossili condizionata dalla pandemia.
Sempre a dicembre 2020 si sono celebrati i 5 anni dall’accordo di Parigi, quello salutato allora come la svolta per risolvere il cambiamento climatico e che avrebbe dovuto da subito innescare una netta inversione di tendenza e soprattutto l’avvio dell’abbandono dei combustibili fossili. L’entusiasmo a Parigi che, come a Kyoto nel 1997, celava altre esigenze, è andato deluso, perché le emissioni di CO2 invece di scendere sono aumentate. I politici dei Paesi ricchi sono poco responsabili quando si prendono impegni troppo ambiziosi, solo per farsi belli presso i loro elettori, sempre più ansiosi per il cambiamento climatico. Dentro l’Onu, che ha un urgente bisogno di unità per disinnescare le spinte che la stanno sfaldando, i Paesi meno ricchi, vogliono più aiuti, più soldi, e il motivarlo con la ragione encomiabile del cambiamento climatico va bene a tutti.
Stabilizzare le emissioni di CO2 da combustibili fossili è quasi impossibile, invertirne la tendenza è fuori dalla realtà, perché il mondo vuole più ricchezza, che si fa con l’energia, e perché alternative alle fonti fossili non ce ne sono. Nel 2019, prima della pandemia, le emissioni di CO2 da combustibili fossili sono aumentate dell’1% al nuovo massimo di 34,2 miliardi di tonnellate, valore superiore del 4% rispetto al 2015 e del 50% rispetto al 1997 di Kyoto. Le condizioni di vita di miliardi di persone devono essere migliorate, mentre altri 2 miliardi di persone arriveranno nei prossimi due decenni.
La domanda di energia nel 2019 è stata di 15 miliardi di tonnellate equivalenti, salirà nei prossimi anni verso i 18, nella migliore delle ipotesi, sempre che sia possibile accelerare sull’efficienza energetica. Pensare che la domanda di energia che oggi è coperta per l’80% dai fossili possa passare a fonti rinnovabili, eolico e fotovoltaico soprattutto, non è ottimistico, è fantasioso. La pandemia causerà nel 2020 un calo dei consumi di energia e di fonti fossili dell’ordine del 5% e una flessione simile delle emissioni di CO2, variazione di intensità pari a quella di cui avremmo bisogno per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione nei prossimi decenni.
Nel 2021, con il lento ritorno a normalità anche i consumi di energia torneranno a salire e così le emissioni di CO2, ma la politica continuerà a rinnovare i propri proclami. La Cina e gli altri dell’Asia continuano a costruire centrali a carbone, mentre la ricca Europa, dove i consumi sono stabili, pontifica su quello che gli altri devono fare e su improbabili nuovi modelli di produzione e distribuzione dell’energia, ovviamente sempre più verde.
Nel 2021, l’Italia avrà l’occasione di guidare la discussione di questi temi con la presidenza del G20 e con l’organizzazione, assieme al Regno Unito, della Conference of the Parties, Cop, numero 26 di Glasgow. Ci fosse almeno il tradizionale pragmatismo britannico, ma anche questo di recente si è dovuto piegare al populismo e allora sarà la solita fiera dei buoni intenti e degli strali contro le fonti fossili. Sarebbe utile che l’Italia prendesse atto delle difficoltà della transizione e dedicasse più attenzione a questioni meno spettacolari, ma più urgenti, come, per esempio, difendere di più la propria industria, quella che, se solida e florida, può fare quell’innovazione tecnologica indispensabile per attenuare la crescita dei fossili e delle emissioni.