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Occhio, la stagflazione è in agguato. Pennisi spiega perché

Governi e banchieri centrali potranno trovarsi alle prese con un fenomeno che non hanno conosciuto e che da anni nei manuali di economia occupa poco più di una nota a piè di pagina. Da Formiche.net, getto un sasso nello stagno. Nella speranza di aprire un dibattito

C’è un pericolo in agguato, anche se nessuno (o quasi) ne parla: il ritorno nella seconda parte del 2021 o nel 2022, di un vecchio avversario nelle economie occidentali, la stagflazione, la miscela esiziale tra inflazione e stagnazione.

Chi ha studiato economia negli anni Ottanta del secolo scorso ricorda che il tema occupava uno o due capitoli dei manuali universitari dell’epoca, a ragione, principalmente, dell’esperienza avutasi nella seconda metà degli anni Settanta, dopo la crisi petrolifera del 1973 ed il crollo del sistema monetario internazionale ancorato al dollaro Usa (a sua volta con un nesso con l’oro) nel ferragosto 1971. Furono anni difficili, in cui l’aumento dei prezzi ed in parallelo la stagnazione dell’economia crearono disagio e tensioni sociali.

Questa volta le determinanti appaiono differenti. Da un lato, le previsioni economiche indicano concordemente una ripresa molto lenta: per l’Italia (e per gli altri maggiori Paesi dell’Unione europea-Ue) si dovrà attendere almeno sino a fine 2023 per tornare ai livelli di produzione, di reddito e di consumi di fine 2019. Da un altro, la storia economica ci insegna che al termine di una pandemia si verificano aumenti dei prezzi, anche e soprattutto per strozzature dal lato dell’offerta mentre la domanda tenta di tornare ai livelli di consumo che precedevano la calamità. L’ufficio studi della Bank of England ha condotto una ricerca in cui conclude che un anno dopo la fine della pandemia si è di solito in inflazione. Un aumento rapido dei prezzi si verificò dopo la “peste nera” del tardo Medioevo: carenza di beni essenziali e corsa all’accaparramento. Un lavoro di Robert Barro e di suoi colleghi dell’Università di Harvad ha studiato meticolosamente l’inflazione che ha fatto seguito alla influenza “spagnola” del 1918-20 e che è stata una delle determinanti dell’avanzata di movimenti autoritari in numerosi Paesi europei.

A queste determinanti, per così dire, “congiunturali”, si sommerebbe una determinante “strutturale”, analizzata da Charles Goodhart nel saggio The Great Demographic Reversal scritto con Manoj Pradhan. Secondo Goodhart, noto soprattutto per i suoi studi di economia monetaria, l’inflazione non sarebbe stata domata dall’abilità dei banchieri centrali ma dallo spostamento della produzione di manifatturiera verso aree (principalmente la Cina) caratterizzate da popolazione giovane, addestrata e disposta a lavorare a bassi salari. Ora “la pacchia” è finita a ragione, da un lato, dell’invecchiamento della popolazione anche in Estremo Oriente e della richiesta di remunerazioni più alte e di una rete di protezione sociale.

Governi e banchieri centrali potranno trovarsi alle prese con un fenomeno che non hanno conosciuto e che da anni nei manuali di economia occupa poco più di una nota a piè di pagina. Da Formiche.net, getto un sasso nello stagno. Nella speranza di aprire un dibattito.

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