Quello della tunisina arrestata a Latina perché online istigava alla jihad non è un caso isolato. L’analisi di Stefano Dambruoso, magistrato esperto di terrorismo internazionale, e Francesco Conti, master counter terrorism King’s College London
Una recente operazione antiterrorismo condotta dalla Digos ha portato all’arresto di una cittadina tunisina residente a Latina, che, su diverse piattaforme di messaggistica online, condivideva materiale propagandistico inneggiante al jihad. Ma la preoccupazione dell’intelligence si è accentuata per aver riscontrato la diffusione di veri e propri manuali utili a fabbricare autonomamente ordigni esplosivi di piccole dimensioni.
Questo episodio ha confermato che le app di messaggistica online, e Internet in generale, rimangono il medium di riferimento dei seguaci dell’Isis, nonostante la costante attenzione e monitoraggio delle agenzie di intelligence e di polizia governative, oltre che di organismi internazionali come Europol e Interpol, che dispongono di speciali dipartimenti per le indagini online. Già dal 2007 gli analisti più impegnati contro il terrorismo come Bruce Hoffman segnalavano che le piattaforme online avrebbero consentito ai terroristi di disporre di un “santuario virtuale per compensare la perdita dei santuari fisici”. Analisi poi confermatasi giusta dopo la caduta del Califfato nella primavera dell’anno scorso e la massiccia migrazione online dei suoi miliziani. Manuali sulla fabbricazione di esplosivi per proseguire il jihad sono disponibili in rete da almeno un decennio, da quando la rivista Inspire, creata dall’ideologo di Al-Qaeda nella Penisola Araba, Anwar al-Awlaki, e dal suo braccio destro, Samir Khan, pubblicò il noto articolo “How to make a bomb in the kitchen of your mom” nel numero di esordio nel 2010. E proprio questo tipo di manuali venivano diffusi dalla jihadista tunisina arrestata a Latina.
Oltre a diffondere le istruzioni sulla costruzione di ordigni esplosivi, sembra che la cittadina tunisina istigasse i propri interlocutori a compiere attentati utilizzando la ricina, la sostanza velenosa da tempo nell’armamentario degli appartenenti al Califfato. In Germania, nel 2018, un militante dell’Isis, anch’esso tunisino, venne arrestato dall’antiterrorismo tedesco dopo un’attenta attività di sorveglianza che aveva dimostrato la sua intenzione di assemblare un ordigno proprio con questa potente citotossina. È molto probabile che anche questo terrorista abbia utilizzato i manuali diffusi sul digitale per la fabbricazione di bombe biologiche. Ma l’arresto della donna richiama un tema che ancora appassiona esperti ed analisti del jihad: qual è il ruolo assegnato alle donne del Califfato sui campi di battaglia?
La maggioranza dei gruppi jihadisti adotta ancora un atteggiamento conservatore rispetto al ruolo della donna nel jihad, in linea con quanto previsto dal Corano in cui sono per lo più relegate a compiti passivi o di supporto. Lo Stato islamico, invece, è riuscito per necessità a “sdoganare” le donne anche per ruoli più operativi, prima riservati quasi esclusivamente agli uomini. Indicativa al riguardo è stata l’esperienza della Brigata Al-Khansaa, unità di polizia completamente composta da personale femminile armato, che aveva come compito quello di vigilare sul corretto rispetto della sharia (secondo l’interpretazione restrittiva dell’Isis) da parte delle cittadine di Raqqa. Inoltre, con la progressiva perdita di territorio, personale e mezzi, il Califfato ha consentito alle donne di prendere parte anche alle operazioni militari più convenzionali, pur se il loro apporto sul campo di battaglia sembra essersi rivelato pressoché improduttivo di grandi risultati.
Il crescente ruolo della donna nelle organizzazioni terroristiche è andato di pari passo con l’utilizzo del web; che ha reso la partecipazione alla militanza estremista certamente paritaria. Mentre decenni fa le donne erano fisicamente escluse dai circuiti militanti delle moschee o dalle madrasse più radicali, ora possono accedere alla propaganda online senza alcuna limitazione. Lo stesso discorso vale anche quando sono le stesse donne a svolgere un ruolo attivo, disseminando via web il materiale terroristico. Fra le storie femminili una delle più note è quella di Sally Jones, cittadina britannica morta in un raid aereo americano nel 2017, proscritta dalle Nazioni Unite per il suo influente ruolo quale reclutatrice per l’Isis sulle piattaforme social. Jones utilizzava il web per istigare i suoi seguaci a compiere attacchi nel Regno Unito, fornendo anche istruzioni per la fabbricazione di esplosivi fai-da-te. Sostenitrici del Califfato si sono attivate per compiere azioni terroristiche anche in Europa, con cellule composte esclusivamente da donne, poi sgominate sia in Francia che nello stesso Regno Unito. Nel territorio cisalpino quattro donne che si erano poste l’obiettivo di un attacco esplosivo vennero arrestate nel 2016 per il loro coinvolgimento in un attacco all’arma bianca nei confronti di un poliziotto. Anche in questo episodio, le donne erano molto attive sui social media. Per quanto riguarda il Regno Unito, invece, una cellula composta da una madre e dalle sue due figlie, venne sgominata nel 2017. In questo caso l’attacco con accoltellamento era stato solamente pianificato e non ancora messo in atto. Per quanto riguarda il nostro Paese fra le non poche storie di foreign fighter femminili è indicativa quella di Maria Giulia Sergio, molto probabilmente deceduta in Siria, che aveva rivelato, in una comunicazione intercettata dalle forze dell’ordine, di essere stata addestrata all’utilizzo di armi da fuoco.
Secondo il think thank statunitense The Heritage Foundation, il 17% degli attacchi terroristici compiuti o tentati in Europa fra il 2014 e il 2017 hanno visto il coinvolgimento di almeno una donna. Statistica non molto lontana da quella relativa alle donne che si sono unite allo Stato islamico in Siria e Iraq; si stima, infatti, che il personale femminile rappresenti circa il 13% del totale dei foreign fighter. Invece, le donne rappresenterebbero soltanto il 4% dei returnee. Un numero basso che si riflette e trova riscontro sul numero delle migliaia di donne che sono tutt’ora detenute nei campi di prigionia della Siria nord-orientale, e fra questi nel più affollato, quello di Al-Hol. Fra di loro vi sono molteplici donne che non hanno ancora abbandonato il loro credo estremista; anzi, utilizzano la loro condizione per continuare nella diffusione della propaganda dell’Isis, sia nei confronti delle altre donne, sia nei confronti dei bambini che vivono con loro, molti dei quali sono nati sotto le bandiere nere del Califfato e non hanno conosciuto altro se non brutalità e violenza. Tale situazione era stata segnalata anche dalla nostra intelligence nel rapporto annuale del 2019, dove veniva evidenziata la preoccupazione per un eventuale “passaggio di testimone” della brutale ideologia dell’Isis fra le due generazioni.
Il problema dei cosiddetti “cuccioli del Califfato” riguarda direttamente il tema della deradicalizzazione, che, se è già complicata per soggetti adulti, si rivela per questi bambini ancora più difficile. Soprattutto se continueranno a vivere i prossimi anni in tali campi di detenzione, in condizioni di vita pessime (aggravate poi dall’emergenza Covid-19), senza alcuna concreta speranza per un futuro normale fra i loro coetanei che non hanno invece vissuto esclusivamente nei campi.